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Teatro: Napoli Festival, apre l'ultimo Nekrosius

Coinvolgente spettacolo di denuncia su testi Nobel Aleksievic

NAPOLI ANSAcom

(di Paolo Petroni)

Uno spettacolo particolare questo ''Zinc (Zn)'' sull'Urss degli anni, i primi '80, della guerra in Afghanistan e di Cernobyl, ultimo di Eimuntas Nekrosius, scomparso improvvisamente a 66 anni il 20 novembre scorso, con cui si apre alla grande il Napoli Teatro Festival, omaggiando il grande regista lituano anche con una mostra a Palazzo Fondi. Foto, bozzetti, appunti, manifesti, oggetti di scena ne raccontano il percorso artistico dal 1977, quando firmò la sua prima regia, alla prima tournée internazionale nel 1984 con ''Pirosmani, Pirosmani'', puntando in particolare sul lavoro svolto dal 1998, quando fondò il suo teatro Meno Fortas in una ex tipografia di Vilnius, e fino ad oggi, passando per i suoi stupefacenti Cechov e Shakespeare che ne hanno fatto una figura di rilievo mondiale. Particolare perché come sempre non sviscera, smonta, esplora in maniera e con fantasia personalissima un testo, ma finisce pere essere un lavoro documentario di denuncia basato sulla parola, quella dei testimoni raccolta e riscritta dal premio Nobel per la letteratura 2015 Svetlana Aleksievic (edita in Italia da E/O), cui i tempi, le atmosfere, le invenzioni sceniche, i suoni e rumori e naturalmente gli attori, tutti bravissimi e anche espressione di quella forte fisicità su cui lavorava sempre Nekrosius, danno una forza drammatica più emotiva e coinvolgente man mano che procedono le circa tre ore di questo lavoro, riallestito dal figlio quarantenne Marius del regista, di cui era scenografo, assieme alla madre costumista Nadezda Gultiajeva. Uno spettacolo esemplare sulla mostruosità della guerra, parlando di una guerra orribile e feroce come fu quel Vietnam che fu per la Russia l'Afghanistan, che massacrò una generazione riportando in patria, con tante, troppe bare di zinco (da cui il titolo), giovani segnati nel profondo, disturbati, incapaci di reinserirsi nella vita civile normale. Il racconto di un paese che sembra non avere alcun rispetto per la vita umana e le sofferenze della gente, che cerca di cancellare, come dimostra anche nel 1986 la gestione dell'esplosione del reattore atomico di Cernobyl al momento dell'incidente e poi nella costruzione del sarcofago che avrebbe dovuto seppellire quel mostro radioattivo per sempre e lo ha fatto malissimo. In scena sempre la stessa Svetlana (interpretata da Aldona Bendoriute) che trascina simbolicamente sempre con sé un grande registratore a bobine e incontra i reduci, le loro madri, che raccontano le loro tragiche storie atroci in una serie di bellissimi, terribili monologhi di grande impatto per la forza, tra scrittura e interpretazione, della loro verità, del punto di vista personale di chi lo ha vissuto, tutto in uno spazio astratto, vuoto, dove a far da padrone è un gioco mimico di tante belle invenzioni accanto ad alcune altre criptiche, come a voler certe volte creare per forza azione attorno agli interventi in prima persona. Due donne, la madre di un reduce che un bel giorno con la mannaia di cucina fa a pezzi una persona e poi rimette tutto in ordine come nulla fosse, e la moglie di un pompiere mandato come fosse un normale incendio ad affrontare lo scoppio di Cernobyl e morto poi in 14 giorni di incredibili mutazioni e sofferenze, aprono e chiudono lo spettacolo che, in maniera assolutamente non didascalica, vuol ricordare cosa è accaduto ''per distruggere e trasformare tanto profondamente un paese che non esiste più come era'', stando alle ultime parole della stessa protagonista.

In collaborazione con:
Fondazione Campania Dei Festival

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