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Minoranza Pd avverte Renzi, con riforme in gioco partito

Bersani, scissione? No, ma Renzi ascolti disagio

"Il Pd è casa mia, è casa nostra. E Renzi, che è il segretario, ha il dovere di tenere conto della sensibilità di tutti". Così Pier Luigi Bersani risponde, alla Camera, sull'ipotesi di una scissione. La scissione "non la vedo - afferma - però c'è un disagio di cui bisogna prendere atto, senza rispondere sempre 'tiriamo dritto'".

Su un tema come "la qualità della democrazia, in gioco non è la sorte del governo ma il destino del Pd", ha detto Gianni Cuperlo sulle riforme. Al Tg3 che gli domanda se si potrebbe arrivare alla scissione, risponde: "Non è in discussione il rapporto tra maggioranza e minoranza ma l'identità del Pd, Renzi ci pensi prima che sia troppo tardi".

"Più che soddisfazione condivido la preoccupazione espressa dalla parole di Cuperlo". Così Pippo Civati, che ieri dalle colonne del suo blog aveva 'bacchettato' la minoranza dem per rinviare la battaglia sempre a un episodio successivo. "Se si sta in un partito - aggiunge Civati - bisogna saper accettare anche i punti di vista degli altri, mentre Renzi sta ingaggiando una sfida con tutti quelli che lui chiama dissidenti o gufi".

 

Le riforme costituzionali vengono approvate in seconda lettura dalla Camera, con 357 sì e 125 no, con la parola che passa ora al Senato. Il premier Matteo Renzi e il ministro Maria Elena Boschi esultano, sottolineando il "passo avanti" delle riforme. Ma questo passaggio segna un paradosso nel prosieguo delle riforme: a Palazzo Madama il governo dovrà difendere un testo in molti punti "imposto" da Forza Italia, che però da ieri vota contro; e d'altra parte la minoranza del Pd minaccia di far mancare i numeri sulla riforma nel passaggio al Senato e sull'Italicum alla Camera. Una situazione che obbliga probabilmente il governo a mettere entrambe le riforme nel congelatore fino alle elezioni regionali del 12 maggio. Con il ministro delle riforme che intanto respinge le polemiche che vengono dalla minoranza dem con un avvertimento: l'Italicum non si cambia, non si accettano diktat da chi ha perso il congresso.

Al momento del voto finale sulla riforma costituzionale del Titolo V e del Senato, in Aula erano presenti Sel, Lega e Fi, che il 13 febbraio avevano fatto l'Aventino insieme a M5s, che invece ha deciso di confermare tale scelta. Presente solo Danilo Toninelli che, nelle dichiarazioni di voto, ha definito "fascisti" i metodi seguiti dalla maggioranza. Fi, Lega e Sel hanno spiegato la loro presenza con il "rispetto" verso il presidente della Repubblica Mattarella. Ma il loro "no" al merito della riforma è stato ribadito. In particolare Renato Brunetta ha usato parole forti, ed ha spiegato che il dietro-front degli azzurri è stato dovuto al "tradimento" di Renzi del Patto del Nazareno. Da parte sua forti critiche anche al testo, ma nessuna spiegazione del perché esso sia stato appoggiato da Fi fino ad oggi. Proprio su questo punto si è inserito il vice segretario del Pd, Lorenzo Guerini: "abbiamo cercato il confronto con tutti - ha detto in Aula - anche con una forza che ha cambiato idea senza farci capire fino in fondo i motivi".

A spiegarlo è stato Silvio Berlusconi in una nota, che addebita il cambio di rotta di FI al Pd che ha "imposto scelte che avrebbero dovuto essere concordate", cioè l'elezione del Presidente della Repubblica. "Abbiamo rispettato i patti fino in fondo - ha insistito l'ex Cavaliere - altri non possono dire lo stesso". Comunque quel dialogo, ha detto, "è ormai impercorribile". Nella nota Berlusconi si compiace della "compattezza" dei suoi deputati nel "no", cosa che ha "smentito le cassandre" che prevedevano dei voti in dissenso (solo Gianfranco Rotondi ha votato sì).

In realtà un gruppo di 17 parlamentari vicini a Denis Verdini ha affermato in un documento di votare "no", "non per disciplina di gruppo", cosa che implicherebbe riconoscere il ruolo di Brunetta, "ma per affetto e lealta' nei confronti" di Berlusconi. In più i deputati vicini a Raffaele Fitto, sono intervenuti in Aula con Daniele Capezzone per dichiarare il voto contrario, ma rimarcando le differenze rispetto al resto del gruppo, che è quindi diviso in tre tronconi. Sul fronte opposto la minoranza del Pd ha annunciato con Pierluigi Bersani, Rosi Bindi, Gianni Cuperlo e Alfredo D'Attorre il sì alle riforme (solo in 8 non hanno partecipato al voto) ma con la minaccia di togliere il sostegno se non verrà cambiato il testo in Senato e l'Italicum alla Camera. "Abbiamo fatto un passo in avanti importante e abbiamo messo un altro tassello" ha detto comunque il ministro Boschi, e Renzi ha aggiunto che "la fine del bicameralismo paritario e' più vicina, l'Italia diventerà un paese più semplice, più giusto e più veloce".

Eppure se vorrà blindare il testo delle riforme in Senato si ritroverà contro i 24 senatori bersanini, determinanti nell'Aula di Palazzo Madama. E rischi ci sono anche alla Camera per l'Italicum. A meno che Renzi rinunci ad una conferma pura e semplice dei due testi nei due rami del Parlamento accettando i diktat della minoranza Pd, o recuperi Fi o almeno una sua parte.

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