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Viaggio nel nuovo Tibet, tra tradizione buddhista e modernità cinese

Viaggio nel nuovo Tibet, tra tradizione buddhista e modernità cinese

Istruzione gratuita e assistenza sanitaria capillare, ma del Dalai Lama non si parla

26 ottobre 2015, 15:13

di Eloisa Gallinaro

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Lhasa, pellegrini al Barhkor, tempio di Jokhang - RIPRODUZIONE RISERVATA

Lhasa, pellegrini al Barhkor, tempio di Jokhang - RIPRODUZIONE RISERVATA
Lhasa, pellegrini al Barhkor, tempio di Jokhang - RIPRODUZIONE RISERVATA

Dawa ha una cinquantina d'anni, fa il contadino e mostra orgoglioso la casa nuova a due piani dove c'e' anche una sala per la preghiera dedicata al Buddha e la bandiera cinese in cortile. Le strade sono ancora da finire, le abitazioni tutte uguali, un'infilata di cubotti in muratura che sembrano perdersi nell'immenso altopiano tibetano, versione contemporanea del mondo misterioso e antico dell'immaginario occidentale. E se non fosse per l'aria rarefatta dei 3.600 metri di altitudine e i profili delle montagne himalayane all'orizzonte non sembrerebbe di essere proprio qui, a pochi chilometri da Lhasa. Nel soggiorno tirato a lucido Dawa offre ai giornalisti stranieri patate bollite ancora calde e the al burro di yak, la bevanda nazionale tibetana. Non parla. A parlare, invece, è il 'sindaco' del villaggio che ne descrive le meraviglie. Deji, Contea di Gonggar, 268 anime, è stato costruito due anni fa - traduce la guida cinese - ha i pannelli solari per l'illuminazione, i giochi per i bambini nel piccolo parco e coltivazioni biologiche.


E' una delle punte di diamante del miglioramento delle condizioni di vita dei contadini più poveri secondo le Autorità della Regione Autonoma del Tibet. Si tratta di un programma di resettlement coatto ai fini di controllo politico secondo organizzazioni internazionali come Human Rights Watch. Difficile capire per chi viene da fuori, anche guardandosi intorno con attenzione. Quello che si vede qui è uno standard di vita decisamente buono e il ritratto di Mao alla parete incorniciato dall'Hada, la candida sciarpa cerimoniale del buddhismo tibetano. Quello che non si vede è il ritratto del Dalai Lama, grande assente nel Tibet che Pechino considera parte integrante della Cina. E che, si ribadisce nel 'Libro Bianco' dell'Ufficio informazione del Consiglio di Stato diffuso nell'aprile scorso, "non ha il diritto di decidere del futuro e del destino del Tibet" perché "l'autonominato governo in esilio" è "un'organizzazione politica illegittima".


Nessuno, tra la gente, si azzarda a nominare il Nobel per la pace. E Jigme Wangtso, direttore dell'Ufficio informazione del Governo della Regione autonoma del Tibet, dà la sua versione: "il Dalai Lama qui è un guscio vuoto". E se in Occidente il Tibet viene inevitabilmente connesso alla questione indipendentista, al XIV Dalai Lama - al secolo Tenzin Gyatso - e ai monaci che si autoimmolano, il direttore dell'Ufficio diritti umani del Consiglio di Stato, Lu Guangjin, si limita a osservare che "la modernizzazione ha creato degli attriti" e che significa ben altro in termini di progresso e sviluppo. Una modernizzazione finanziata dal governo cinese che contribuisce per il 90% al bilancio della Regione autonoma e di cui Pechino vanta i risultati. Un'aspettativa di vita di media di 68,2 anni, il doppio rispetto ai primi anni '50; 15 anni di istruzione gratuita e assistenza sanitaria capillare e anch'essa gratuita per le comunità rurali, oltre al fatto che 62 delle 70 contee dell'area sono oggi raggiungibili con strade asfaltate.


La grande arteria che dall'aeroporto arriva a Lhasa è fiancheggiata da palazzoni di cemento. Nel cantiere di un lussuoso centro commerciale in costruzione, le grandi griffe hanno già i loro spazi. Dior, Calvin Klein, Armani. Ma subito dopo è l'antica tradizione a riemergere. Migliaia di 'Dar Cho' le bandierine della preghiera di stoffa colorata avvolgono fin quasi a farlo scomparire l'avveniristico ponte che porta in città. Si vedono sui fiumi, sulle montagne,nei luoghi aperti, sono stampate con simboli sacri e quando si consumano al vento - secondo la tradizione - le preghiere cominciano a realizzarsi, volando verso il cielo sulle ali del ' Lung Ta', il cavallo del vento. Ma è nell'antico e quasi intatto quartier di Barkhor, davanti al Monastero di Jokhang, il luogo di culto più venerato di tutto il Tibet, costruito nel VII secolo e perennemente avvolto dai fumi dell'incenso, la vera porta tra l'urbanizzazione di una Lhasa cinese, moderna e congestionata dal traffico, e l'antica essenza della religiosità tibetana. Dalla trafficata Bejing road si apre il 'gate' per un altro tempo. I pellegrini arrivano da tutto il Paese. Si sdraiano a terra, si genuflettono, si rialzano, di nuovo giù: percorrono così la Khora, il giro sacro intorno al tempio. Ci sono i nomadi Kampa - anche gli uomini con le lunghe trecce ornate di fili colorati e monili - i Ding Ra, i Douba, in mano la ruota della preghiera, il 'Zhuan Jing tong'. Entrano al tempio e portano in omaggio il grasso di Yak prodotto nelle remote province dell'altopiano per alimentare le candele perenni che illuminano il Buddha Shakyamuni. Pochi i monaci in giro, nella grande piazza sorvegliata con discrezione dalla sicurezza. Ma la libertà di culto oggi è garantita, dopo le restrizioni seguite alla rivolta di Lhasa del 2008. Un tuffo nel passato, la visita al Jokhang. Ma a tarda notte cambia tutto, arrivano i nativi digitali. Jeans, t-shirt e smartphone, si siedono per terra a gruppi, si fanno selfie e chattano. Si godono il fresco e la luna. Un altro Tibet, uno dei molti che in qualche modo tentano di convivere.


Come all'ospedale di Lhasa, dove la medicina convenzionale fondata sulla diagnostica e le terapie occidentali coesiste con la medicina tradizionale tibetana basata - spiega in inglese il medico TseWang TanPa - sui principi di caldo, freddo, neutro. O come all'Università, gioiello di architettura contemporanea, dove Pechino ha investito 560 milioni di renminbi, che custodisce centinaia di migliaia di pergamene dei classici tibetani vecchie di 800 anni e dei testi del 'bon', la religione prebuddhista. La maggior parte sono state anche digitalizzate e oggi, all'Università, il programma di scrittura più utilizzato è Microsoft Word, standardizzato in caratteri tibetani. "La rivoluzione culturale ha fatto danni in Cina e in Tibet non è stato diverso - osserva Sherab Sangpo, docente di lingua e letteratura classica - ma abbiamo il sostegno del governo di Pechino per il restauro dei classici danneggiati".


Si va su e giù tra passato e presenta, a Lhasa. E l'incredibile Potala Palace, patrimonio Unesco e simbolo del Tibet, domina dall'alto la grande città moderna e anonima. E' intatto con le sue mille stanze: il Palazzo Bianco, un tempo residenza invernale del Dalai Lama e il Palazzo rosso, adibito alla funzioni religiose che, tra l'altro, custodisce le tombe, costruite con centinaia di chili d'oro dei vecchi Dalai Lama. I turisti - quantità contingentata, non più di 8 mila al giorno - osservano a bocca aperta questa meraviglia. Cinesi han, minoranze di tutte le province, tibetani. Nessun occidentale. Ne qui, né in altre parti della città. Non ce ne sono neppure al Norbulingka, tre chilometri più in là, residenza estiva dalla quale il Dalai Lama fuggì in India nel '59. "In questa stanza si sedeva. Qui ha studiato da piccolo, in questa sala riceveva gli ospiti", spiega la guida cinese. Il giornalista e il cameramen della CCTV, la televisione di Stato cinese, qui per un servizio sul gruppo di giornalisti occidentali in visita, si inchinano davanti al seggio dove il Dalai Lama impartiva le benedizioni, si portano le mani giunte alla fronte e lasciano - come gli altri pellegrini - un'offerta in denaro. Ma il rispettoso omaggio non è all'uomo che da Dharamsala chiede l'indipendenza del Tibet, è all'autorità spirituale del buddhismo tibetano. Attenzione a non fare confusione.

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