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Un far west che danneggia i pazienti

Su nutrizione parenterale manca una legge nazionale

"Trent'anni fa quando c'era un paziente che aveva bisogno della nutrizione bisognava proporre ai responsabili delle Asl i trattamenti, che venivano poi deliberati dopo settimane, se non mesi - ricorda Guglielmi -. Ora si osserva una sanità 'polverizzata', in cui ogni capo distretto decide cosa fare, quindi si possono avere situazioni molto diverse a seconda della strada in cui uno vive. Alcuni decidono ad esempio di 'fare da soli', mettendo del personale non addestrato che non vede eventuali complicanze. Inoltre non si insegna al paziente a fare da sé, come sarebbe giusto, ma si manda sempre l'infermiere a collegarlo alla sacca, con il risultato che la persona è costretta a sottostare agli orari della Asl, con grandi perdite per la qualità della vita". 


Per cercare il massimo risparmio, sottolinea Guglielmi, spesso si hanno in realtà delle perdite. "Ci sono ripercussioni anche nelle gare, in cui spesso si cerca il massimo ribasso ma si ottengono materiali non ottimali. Noi esperti ci battiamo da 10 anni con le Regioni, abbiamo fatto commissioni e condiviso le linee guida con l'Aifa, ma ancora non c'è un criterio che possa impedire a chicchessia di farsi un protocollo da solo, magari con un risparmio che però è solo apparente se si vanno a guardare poi le conseguenze delle complicazioni, i cui costi però non sono scaricati sulla Asl ma magari sull'ospedale che ha dovuto ricoverare il paziente. Una possibile soluzione sarebbe inserire la Npd nei Livelli Essenziali di Assistenza, anche su questo abbiamo lavorato molto". 

L'equipe dove lavorava Guglielmi, sotto la guida del professor Francavilla, è stata la prima a portare la nutrizione parenterale in Italia. "Noi siamo stati i pionieri, da 30 anni ci occupiamo di nutrizione parenterale - ricorda -. Nell'84 per la prima volta abbiamo curato un paziente con le sacche, che è sopravvissuto 21 anni. L'uomo aveva un tumore del sigma, era stato sottoposto a un intervento sviluppando la sindrome da intestino corto. Nell'84 non c'erano soluzioni, portammo il paziente a Pittsburgh perché in Italia non avevamo le tecnologie, per fortuna proprio in quel periodo in Italia la Baxter stava arrivando nel nostro paese, e abbiamo iniziato a collaborare".

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