“Quello che sta succedendo a Srebrenica è impossibile da descrivere.
C'è qualcuno nel mondo che viene a vedere la tragedia
che sta accadendo a Srebrenica e ai suoi abitanti?
La popolazione di questa città sta scomparendo.
Chi c'è dietro a tutto questo?
Ho paura che non vivremo abbastanza per saperlo”
Nino Catič
Srebrenica, 10 luglio 1995
Questo è un grido d'aiuto lanciato dai microfoni della radio libera di Srebrenica. A pronunciarlo è un giornalista: Nino Catič. La sua voce concitata risuona, vent'anni dopo, dallo smartphone di sua madre, Hajra, mentre viaggia in una macchina partita da Tuzla, destinazione Srebrenica. Quello che ascolta è l'ultimo disperato appello che il figlio di ventisei anni lanciò al mondo.
“Il giorno dopo fu l'ultima volta che vidi Nino. Mi disse che stava per scappare con alcuni amici sui boschi. Io scoppiai a piangere ma lui mi consolò dicendomi: Non piangere mamma, ci rivediamo a Tuzla”. L'undici luglio 1995 – poco prima che scattasse l'offensiva finale dei serbi – lei e il marito andarono a piedi in una località vicino a Srebrenica, Potočari, dove c'era la base dell'Onu. Oggi a Potočari ha sede il memoriale che ospita le vittime del massacro; qui la nostra auto fa una sosta.
Di fronte al memoriale c'è una fabbrica dismessa che ospitava i caschi blu olandesi. Alcuni operai stanno intonacando le pareti. Hajra si aggira tra le stanze, sembra cercare qualcosa. La trova al primo piano, dove non sono ancora arrivati i lavori. I muri sono pieni di graffiti e disegni fatti dai soldati olandesi, quasi tutti osceni e offensivi nei confronti dei musulmani bosniaci.
Uscita fuori, Hajra continua il suo racconto, mentre indica il piazzale che conduce alla strada: “Gli olandesi ci hanno radunato qui fuori, ci hanno messo in fila e hanno separato le donne con i bambini più piccoli dagli uomini; in pratica, ci hanno consegnato nelle mani dei serbi. Questi mi ordinarono di salire su un pullman senza mio marito. Io mi rifiutai; gli mancava un rene, non volevo lasciarlo da solo. Così i serbi mi diedero un colpo alla nuca e caddi a terra. Non ho più visto mio marito vivo”. Lo ha ritrovato qualche anno fa in una fossa comune: “L'ho riconosciuto subito perché portava ancora una cintura che gli avevo cucito io”.
Oggi i resti del marito, Junuz, riposano nel memoriale di Potočari; Hajra va a pregare sulla sua tomba. Accanto c'è uno spazio vuoto, è quello per il figlio Nino che Hajra aspetta di poter colmare.
All'arrivo a Srebrenica è ormai buio. Hajra entra nella casa in cui non riesce più a vivere. Si siede e continua il suo racconto: “Tre anni fa è stata trovata un'altra fossa comune, proprio dove alcuni testimoni mi hanno detto di aver visto per l'ultima volta mio figlio, ferito. Sono anziana, quei terreni sono ancora pieni di mine, eppure sono corsa lì. A un certo punto ho iniziato a vedere vecchi indumenti a terra e mi sono messa a scavare a mani nude, finché non ho trovato un teschio. Ho sperato che fosse di Nino ma le analisi del Dna hanno rivelato che si trattava di un altro ragazzo”.
Tornando a Tuzla, l'auto si ferma davanti al palazzo in cui aveva sede la radio libera di Srebrenica. Accanto, un cartello avverte di fare attenzione alle mine, che ancora si nascondono numerose nei terreni che circondano Srebrenica.
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