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Kertesz, scrittura ultimo rifugio

Kertesz, scrittura ultimo rifugio

Le estreme pagine, ricordi, riflessioni del Nobel ungherese

ROMA, 25 febbraio 2017, 11:10

Paolo Petroni

ANSACheck

- RIPRODUZIONE RISERVATA

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     IMRE KERTESZ, ''L'ULTIMO RIFUGIO'' (BOMPIANI, pp. 280 - 20,00 euro - Traduzione di Mariarosaria Sciglitano).
    Il sottotitolo di queste pagine, ''ultimo rifugio'' di Imre Kertesz negli ultimi anni della sua vita (1929-2016), è ''Romanzo di un diario'', ovvero, più che diario, racconto di questo diario, del suo divenire e riflessioni su di esso e il suo farsi. Romanzo non in senso di romanzesco, pur essendo l'esistenza del premio Nobel assai ricca, dal passaggio ad Auschwitz ancora bambino, al ritorno nella sua Ungheria e i problemi col Partito Comunista al potere e quindi l'esilio in Germania, ma romanzo in quanto racconto letterario di una vita. Il premio Nobel ungherese, che in queste pagine si racconta tra la Berlino che l'ha accolto e l'amore per la sua Budapest, che dopo il crollo del socialismo manifesta sempre più tendenze autoritarie e un razzismo tutt'altro che strisciante, non perde mai di vista la realtà, finanche la cronaca del mondo attorno a lui, ma la sua preoccupazione, il suo tema è l'invecchiare e il perdere vitalità fisica e creativa. Quest'ultimo libro-diario è costruito in una lunga serie più o meno cronologica di frammenti, pensieri, ricordi, annotazioni, miniracconti, divisi in tre parti. La struttura è quella di una serie di frammenti più o meno databili nel tempo, riuniti in tre macrosezioni, una doppia che rappresenta il tentativo di un romanzo ''viziato e fragile'', appunto 'L'ultimo rifugio', e le altre che assieme rivelano genesi e teorie alla base delle opere precedenti, da Essere senza destino' a 'Kaddish per un bambino mai nato', da 'Liquidazione' a 'Fiasco', con una vitalità che vive come in bilico sul confine tra la necessità di scrivere e l'implacabile interrogarsi sul senso della scrittura, che è ragione della sua stessa esistenza, così che queste pagine divengono l'articolata e impietosa cronaca analitica del mestiere e dell'essere scrittore, che per lui è una lotta continua per la dignità dell'uomo. ''Quali doveri umani dovrei avere oltre a quello di creare, cosa che ritengo sia il mio dovere: cioè esprimere con le mie opere la mia gratitudine per le possibilità ricevute da Dio?'' si chiede pur avvertendo la sua religiosità come liquida ma con l'inevitabile e forte radice ebraica che è cosa difficile per lui da definire, anzi sostiene che gli unici ad averla chiara siano gli antisemiti, e con cui si confronta lacerandosi ne più profondo di sé, quel sé scampato alla tragedia di Auschwitz, convinto che tutto nella vita sia fondamentalmente illusione, che vinca in genere l'inerzia, mentre i sentimenti compaiono e scompaiono in un soffio e se qualcosa alla fine nasce nonostante tutto è cosa sorprendente, imprevista e inattesa. Sfuggito all'olocausto e fuggito dallo stalinismo, quest'uomo si arrovella e interroga instancabilmente, si chiede anche proprio come ricordare per aiutare a capire, mentre assiste ai grandi mutamenti del Novecento e dell'inizio del nuovo secolo con la tragedia dell' 11 settembre, e in questa confusione generale in continua evoluzione allora è forse l'arte a poter dare l'estremo messaggio, a far baluginare attraverso la bellezza un attimo di speranza. Questo però restando sempre vigile sino alla fine, amando i propri libri, ma non amando ''la mia vita, il mio modo di vivere. Una sorta di sconforto rassegnato caratterizza il tutto. Ogni mattina mi ci infilo dentro e me lo tiro su come una brutta giacca. Soffro per il fatto di non poter scrivere e 'L'ultimo rifugio' in realtà ne sarebbe la logica continuazione. Tuttavia temo di offendere chi vive: un punto di vista che non avevo mai preso in considerazione''.
   

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