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Padre Mosè, l'angelo dei profughi

Padre Mosè, l'angelo dei profughi

Migrante tra i migranti, il sacerdote al servizio degli ultimi

ROMA, 16 gennaio 2017, 08:37

Marzia Apice

ANSACheck

- RIPRODUZIONE RISERVATA

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MUSSIE ZERAI, PADRE MOSE' (Giunti, pp.224, 16 Euro). "È da quando ho cominciato a occuparmi di migranti che, ogni giorno, mi chiedo: perché succede tutto questo? E la risposta è stata sempre la stessa: perché qualcuno - sul piano politico - non ha fatto il suo dovere. Se quei disperati avessero potuto raggiungere l'Europa per vie legali e sicure, senza essere costretti ad affidarsi ai mercanti di morte, non avrebbero terminato i loro giorni in fondo al mare".
    Non mancano parole dure e considerazioni amare nel libro Padre Mosè scritto da 'Abba' (don) Mussie Zerai con Giuseppe Carrisi (Giunti), nel quale il sacerdote eritreo racconta la sua vita mescolandola al destino dell'esercito di migranti in fuga da guerra, fame e violenza. Il racconto è dettagliato, tuttavia oltre alla biografia dell'autore che si fonde alla politica e alla cronaca degli ultimi anni, il libro ha un respiro più ampio che scuote le coscienze ed emoziona, e che dovrebbe far riflettere non soltanto il 15 gennaio, Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, ma ogni giorno.
    Mussie Zerai tra i disperati che fuggono è un'autorità: i migranti lo riconoscono perché lui, prima di diventare sacerdote nel 2010 (sull'esempio di Giovanni Battista Scalabrini, beatificato nel 1997 con il titolo di Padre dei migranti) è stato uno di loro. Arrivato da Asmara in Italia nel 1992, a 17 anni, per scappare dal regime eritreo, Mussie Zerai ha lavorato al mercato, poi ai semafori come venditore di giornali, infine come receptionist in una clinica e come guardarobiere in un teatro parrocchiale. E mentre cercava di costruire il proprio futuro ha iniziato ad aiutare altri immigrati, meno fortunati di lui. Da quel 10 marzo 2004, giorno in cui ricevette la prima telefonata di sos dal mare, il suo telefono è sempre rimasto acceso, tanto da essere diventato ormai l'estremo appiglio a cui aggrapparsi. Quel numero continua a essere scritto sulle magliette, sulle pareti delle navi e delle carceri, c'è chi lo pronuncia in un ultimo afflato di speranza e chi lo chiama dai lager libici, dalle prigioni egiziane o dai campi profughi del Sudan. Mussie Zerai - candidato al Nobel per la Pace nel 2015, inserito dal Time tra le 100 personalità più influenti del 2016 nella categoria "Pionieri" - risponde sempre, e ogni volta cerca di aiutare come può. Negli anni ha imparato a farsi sentire, organizzando conferenze stampa, scrivendo ai politici, facendo più 'rumore possibile'. Poi con la nascita nel 2006 dell'agenzia no profit Habeshia, il cui nome in arabo significa 'meticcio', ha iniziato ad assistere migranti ed emarginati in modo più sistematico, nella convinzione che "non ci può essere pace senza giustizia, non ci può essere pace senza diritti". Nel libro l'autore rievoca le stragi in mare, dalle prime alle più recenti, parla di tratta di uomini, di diritti violati, di un Mediterraneo divenuto cimitero e di un'Africa depredata e dilaniata. Mentre scrive che "chi è disperato non si fermerà di fronte a nessun muro", Mussie Zerai non dimentica di fare i nomi, senza fare sconti sulle responsabilità: da Silvio Berlusconi a Walter Veltroni, da Cecile Kyenge a Luca Odevaine, perfino Hillary Clinton. E raccontando di un'Italia in cui le condizioni di vita dei migranti spesso sono indegne di un Paese civile, lancia il suo atto d'accusa: "L'Onu, l'Europa e le altre istituzioni nazionali e internazionali violano i diritti dei migranti. La politica di Bruxelles è quella di arginare i flussi migratori attraverso accordi bilaterali con i vari paesi di transito, senza preoccuparsi delle modalità con cui queste persone vengono fermate. Sono anni che l'Europa costruisce muri e non ponti per affrontare la tragedia dei profughi".
   

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