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Difesa dell'italianità in libro D'Amelio

Difesa dell'italianità in libro D'Amelio

Un saggio per la prima volta parla dell'Ufficio zone di confine

TRIESTE, 13 febbraio 2016, 15:45

Francesco De Filippo

ANSACheck

- RIPRODUZIONE RISERVATA

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    DIEGO D'AMELIO, ANDREA DI MICHELE, GIORGIO MEZZALIRA, LA DIFESA DELL'ITALIANITA'. L'UFFICIO PER LE ZONE DI CONFINE A BOLZANO, TRENTO E TRIESTE (1945-1954) (IL MULINO; PAG. 603; EURO 42). Da quando agli inizi degli anni Novanta il magistrato Carlo Mastelloni trovò nella Galleria Sciarra, nel centro di Roma una sorta di montagna di carte, atti, documenti coperti da uno spesso strato di cellophane, dell'Ufficio per le zone di confine e attività correlata non si è saputo granché. Se ne è parlato grazie a un'inchiesta giudiziaria del perito della Commissione stragi Aldo Giannuli, dal 1996 in poi, poi il silenzio. Ora tre ricercatori, Diego D'Amelio, Andrea Di Michele e Giorgio Mezzalira (altri hanno collaborato), hanno pubblicato "La difesa dell'italianità.
    L'Ufficio per le zone di confine a Bolzano, Trento e Trieste" che in oltre 600 pagine descrive minuziosamente l'attività di quell'ente.
    Come per altri argomenti che riguardano il confine Nord Orientale [se intendi il quello giuliano, è meglio dire "frontiera orientale", altrimenti meglio distinguere "frontiera orientale e frontiera settentrionale"] negli anni del dopoguerra, anche e soprattutto l'Uzc - una realtà voluta da Alcide De Gasperi e a lui facente capo attraverso il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio il giovanissimo Giulio Andreotti, non si è mai voluto che fosse troppo conosciuto. A distanza di tanto tempo, i tre ricercatori hanno avuto la possibilità di studiare le carte da prima della costituzione (1947), quando operavano l'Ufficio per l'Alto Adige e l'Ufficio per la Venezia Giulia, a dopo la sua scomparsa (1954), quando molto confluì nell'Ufficio Regioni. E di accertare, tra l'altro, i finanziamenti concessi dal governo italiano a milizie paramilitari impegnate al confine orientale nella cosiddetta difesa della italianità, a dimostrazione dell'esistenza di una strategia sommersa che intrecciò su diversi piani l'azione di istituzioni, partiti politici, destra neofascista, servizi segreti e settori militari.
    L'Uzc si occupò di tutto ciò che riguardava la difesa o la riconquista della sovranità italiana su quelle frontiere contese. Anni difficili con problemi profondi che la pace non aveva risolto e il rischio di perdere entrambe le due aree, l'Alto Adige, dove vivevano 200 mila sudtirolesi (cioè tedeschi) e la Venezia Giulia, contesa fra Italia e Jugoslavia. La pace non fu una discriminante, né segnò una completa svolta: "In molti ambiti ci fu una continuità culturale tra il fascismo e il Dopoguerra - indica D'Amelio - come dimostra il caso del prefetto Silvio Innocenti, che gestì a lungo l'Uzc".
    Se lo Stato italiano aveva la sovranità sull'Alto Adige ma il territorio era amministrato da una minoranza di lingua tedesca, gli aspetti più complessi erano invece nella Venezia Giulia, sottratta al controllo italiano fino al 1954 da un governo militare angloamericano e chiamata poi a una difficile normalizzazione che poté dirsi centrata solo venti anni più tardi, nel 1975, con il Trattato di Osimo. In quest'angolo di Italia le contrapposizioni erano forti e le dinamiche complesse, basti pensare che l'Uzc spese tre miliardi di lire in propaganda a favore dell'italianità (partiti, giornali e altro) solo a Trieste dal 1947 al 1952. Stimolando i nazionalisti locali contro comunisti e sloveni, l'Uzc diede vita a strutture paramilitari "con forti continuità organizzative con Gladio, fondata al confine orientale nel 1956". Anni di stridenti tensioni: non che gli eredi dei partigiani comunisti filo jugoslavi fossero meno violenti, anzi. In questo scenario bisogna inserire i rapporti a tratti difficilissimi con la Jugoslavia, satellite di Mosca fino al 1948 e poi avversario temuto all'interno di pesanti momenti di crisi diplomatiche, come nel 1953. In quell'anno, Andreotti e il ministro della Difesa, Taviani, inviarono armi a Trieste che vennero nascoste, da utilizzare in caso di invasione da parte dei titoisti.
    Ma perché l'Italia, distrutta dalla guerra e con tantissimi e urgenti problemi, voleva a tutti i costi tenersi queste due aree? "Trieste era una città simbolo dell'irredentismo - risponde ancora D'Amelio - e poi c'era il peso simbolico dei 600 mila fanti morti nella Prima guerra ... Il fascismo aveva stravolto l'idea di italianità e le frontiere furono un potente strumento retorico per ricostruirla. Per l'Alto Adige, invece, la questione era di natura strategica ed economica: il Brennero era una frontiera militare irrinunciabile le industrie idroelettriche locali servivano a far ripartire l'economia dell'intera pianura padana".
   
   

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