E' una storia romantica e piena di speranza quella narrata da Péter Gárdos nel romanzo 'Febbre all'alba' (Collana Narratori Stranieri, pag. 234, €17.00, Traduzione di Andrea Rényi), dove il regista ungherese ricostruisce l'innamoramento dei suoi genitori, sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti e portati in Svezia per curarsi.
E' il luglio del 1945 quando Miklos, ridotto pelle e ossa e con una brutta malattia ai polmoni, raggiunge un campo profughi in Svezia. I medici gli dicono che ha pochi mesi di vita, ma lui compila una lista di 117 giovani donne, ungheresi come lui, che hanno trovato asilo in altri campi profughi svedesi e invia a ognuna di loro lettere elegantemente scritte a mano. "Io sto cercando moglie. Vorrei sposarmi." spiega al primario che lo ha in cura, che gli risponde: "Non avrò saputo esprimermi bene in ungherese. Lei ha circa sei mesi di vita. Questo è il tempo che le rimane, Miklós". "L'ho capito perfettamente, signor primario" ribatte il giovane ungherese, che si innamora via lettera della diciottenne Lili, anche lei ricoverata. La storia del loro amore è ripercorsa dalle missive che si scambiano, un centinaio in tutto, e che l'autore ha potuto leggere solo dopo la morte del padre. "I miei genitori non mi hanno mai parlato della deportazione, né dei campi, la mia sensazione è che si vergognassero di essere sopravvissuti" racconta Gardos, a Milano per presentare sia il libro sia un'anteprima del film che ne ha tratto. "Volevano dimenticare a ogni costo, per questo non parlavano di come era nato il loro amore, io - racconta il cineasta - pensavo si fossero conosciuti nei corridoi di un ospedale in Svezia, solo dopo la morte di mio padre mia madre si è sentita libera di raccontare ciò che era stato taciuto e di consegnarmi le oltre 100 lettere che si erano scambiati".
Nel racconto della nascita di questo amore c'è anche la storia di chi è sopravvissuto ai lager nazisti: c'è Harry, l'amico di Miklos che vuole fare sesso per tornare alla vita, ma non riesce ad avere rapporti; c'è Judit, invidiosa dell'amore di Lili, che tradisce la fiducia dell'amica denunciando la sua relazione clandestina al rabbino che segue gli ebrei ungheresi; c'è il tipografo che viene a sapere che la moglie è morta in Germania e decide di farla finita. "Questi sopravvissuti erano molto fragili, in Svezia curavano i loro corpi ma non le anime, ognuno doveva ricucire da sé le sue ferite. I miei genitori lo hanno fatto rimuovendo i ricordi, tanto che mia madre, che aveva vissuto con sua cugina l'inferno di Bergen Belsen - racconta Gardos - è stata incapace di raccontare ai suoi zii che era morta il giorno prima della liberazione". Nella rimozione del tragico vissuto è rimasta coinvolta anche la religione: "i miei genitori si sono sposati con un matrimonio ebraico perché il rabbino li ha aiutati a organizzare le nozze in Svezia, ma poi hanno rinnegato tutto, per loro - ribadisce - era fondamentale allontanarsi dal passato".
Questo passato di rifugiati "non può non essere paragonato al presente di chi cerca rifugio oggi: nel 1945 la Svezia è stata un modello di equilibrio e di serietà che dovrebbe essere valido anche oggi. Al suo arrivo in Svezia in nave mio padre è stato accolto dalle donne svedesi che portavano dolci fatti in casa ai sopravvissuti: sono cose che oggi non si vedono ed è molto triste, l'Europa - riflette - è peggiorata, ha il cuore molto più duro".
Riproduzione riservata © Copyright ANSA