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Albertazzi: Scaparro, Giorgio era quel che faceva

Albertazzi: Scaparro, Giorgio era quel che faceva

Il regista e amico di una vita ne ricorda spirito e lavoro

29 maggio 2016, 20:51

Paolo Petroni)

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Una foto di scena di Giorgio Albertazzi mentre recita 'Le memorie di Adriano ' di Marguerite Yourcenar - RIPRODUZIONE RISERVATA

Una foto di scena di Giorgio Albertazzi mentre recita  'Le memorie di Adriano ' di Marguerite Yourcenar - RIPRODUZIONE RISERVATA
Una foto di scena di Giorgio Albertazzi mentre recita 'Le memorie di Adriano ' di Marguerite Yourcenar - RIPRODUZIONE RISERVATA

''Quel che Giorgio è stato per il nostro teatro lo si capirà davvero solo ora, dal vuoto che ha lasciato. Parte da lui un discorso sul senso e l'importanza del teatro oggi e di quel che potrà essere in futuro'', dice all'ANSA Maurizio Scaparro, amico di una vita di Albertazzi e regista di tanti spettacoli, dal grande goethiano 'Il giovane Faust', in cui fu uno straordinario Mefistofele, sino all'ormai classico 'Memorie di Adriano'. "Con lui i giovani sentivano cosa fosse il teatro, capace di dare emozioni diverse, profonde agli spettatori, comunicandogli la forza di quel che stava facendo. Giorgio credeva sempre in quel che faceva, anzi era quel che faceva sino in fondo, altrimenti non sarebbe riuscito a farlo".

Poi il regista ricorda le ultime visite all'amico malato e racconta di essersi accorto che qualcosa stava definitivamente cedendo quando lo ha visto ''privo della sua proverbiale curiosità e di quella naturale capacità di guardare avanti, di progettare e avere idee per il futuro, come era sempre stato sino a pochissimo tempo fa. Del resto se una parola gli si adattava, questa era entusiasmo, che si legava all'affrontare il teatro come parola, concetto, vita. Era come il classico non esistesse perchè per lui era del tutto contemporaneo, anche prima dell'avventura di Adriano che ci siamo portati appresso per anni, invecchiandoci assieme dal 1989, quando pensai di ambientare il personaggio della Yourcenar a Villa Adriana per chiudere il mio mandato da direttore del Teatro di Roma''.

Una delle prime cose che Scaparro dice gli sono venute in mente oggi, è il timore che ebbe all'idea di lavorare con un mostro sacro come lui (pur avendo già lavorato con altri come Gassman o la Papas), ''subito passato davanti alla sua assoluta professionalità, all'incredibile disciplina d'attore. Era sempre critico verso il teatro di regia, ma poi lui stesso diceva di stupirsi di come accettasse i miei consigli, di come ci si capisse al volo in una sorta di connivenza totale''. Scaparro ricorda di aver conosciuto Albertazzi quando ancora non faceva il regista ma era un giovane critico teatrale e che subito era nata una simpatia, una frequentazione nonostante le differenze, che poi, con gli anni, li portò a lavorare assieme.

''Lui veniva dal suo passato repubblichino da ragazzo, ma quando ci incontrammo era già cosa lasciata del tutto alle spalle, anche se passava per uomo di destra, mentre era solo uno spirito assolutamente libero e come tale l'ho vissuto. Era una figura anomala nel nostro panorama culturale non solo per certe prese di posizione, ma perché poi era capace di lavorare felicemente assieme a un Dario Fo. Gli premeva guardare avanti, lavorare per la cultura quando il nostro paese e l'Europa non erano ancora prigioniere dello squallore del vivere solo economico''.

Conferma poi quanto fosse provocatorio il suo spirito: ''un modo di essere che sentivi anche in scena, nel suo modo di pensare e dire le battute, di rivolgersi al pubblico cercando la verità del contatto senza schemi e schermi, per far capire cosa ci fosse dietro le parole. Per lui recitare era la vita stessa, quando già malato pochi mesi fa interpretava Shylock al Ghione a Roma, saltando solo pochissime recite, per lui si trattava di una sorta di medicina necessaria: come entrava in scena lo si vedeva visibilmente cambiare, rivelare una forza intima che pareva impossibile''.

Poi Scaparro conclude: ''Giorgio ricordava sempre come gli avessi suggerito di sorridere nel finale di Adriano''. L'imperatore della Yourcenar ci offre infatti la grande lezione del saper entrare nella morte a occhi aperti, malinconico, perche' sa ''che non c'e' carezza che giunga sino all'anima'', ma ''anche con quel sorriso che voglio immaginare abbia avuto pure nel momento estremo della propria vita''.

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