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Addio a Bertrand Tavernier, l'illuminista del cinema francese

Cinema

Addio a Bertrand Tavernier, l'illuminista del cinema francese

Da Che la festa cominci a Round Midnight, è morto a 79 anni

PARIGI, 25 marzo 2021, 15:38

di Giorgio Gosetti

ANSACheck

>>>ANSA/ADDIO TAVERNIER, ILLUMINISTA DEL CINEMA FRANCESE © ANSA/EPA

>>>ANSA/ADDIO TAVERNIER, ILLUMINISTA DEL CINEMA FRANCESE © ANSA/EPA
>>>ANSA/ADDIO TAVERNIER, ILLUMINISTA DEL CINEMA FRANCESE © ANSA/EPA

E' difficile riassumere in un artista solo tutti i pregi che Bertrand Tavernier ha portato in dote al cinema, la sua grande passione, l'unico amore della sua vita a fianco della moglie Colo e dei figli Niels e Tiffany. Tavernier è stato prima di tutto elegante e raffinato regista, un autore nato già grande come dimostra il suo film d'esordio, "L'orologiaio di Saint Paul" con Philippe Noiret, scritto e diretto nel 1974 e subito premiato a Berlino con l'Orso d'argento. Ma era anche produttore illuminato e indipendente, critico e saggista, storico del cinema e appassionato cinefilo, fondatore e presidente dell'Istituto Lumière a Lione, bibliofilo ed esperto di gialli (il "polar" amatissimo dai francesi), sceneggiatore e comunicatore. Insomma un vero illuminista fuori tempo che oggi si è spento all'età di 79 anni, a un mese dal suo prossimo compleanno.

Era nato a Lione il 25 aprile del 1941 e alla sua città è rimasto sempre fedele, nonostante una vita errabonda e una passione ricorrente per l'America. Gli autori-critici della Nouvelle Vague come Truffaut e Godard lo stimavano perché era comune la passione per i grandi artigiani di Hollywood (Delmer Daves e Bud Boetticher erano tra i suoi preferiti), ma per molto tempo non gli perdonarono una sintonia profonda e ammirata per quella generazione di cineasti francesi che avevano combattuto per affrancarsi da una scuola ormai sfinita. Nonostante il suo gusto della sfida e del nuovo, Tavernier è stato infatti soprattutto un cultore della memoria, un manierista d'alta scuola che vedeva nella sua opera l'anello di congiunzione con un passato luminoso e una memoria da coltivare. Suo padre René era poeta, scrittore, bibliofilo e in piena occupazione tedesca fondò la rivista letteraria "Confluences" ospitando scritti degli spiriti più liberi del tempo come l'anarchico Aragon e il simbolista Elouard. A sei anni la famiglia si trasferisce a Parigi, ma il ragazzo a 11 anni viene mandato in un collegio in Normandia per poi rientrare nuovamente nella capitale iscrivendosi al prestigioso Liceo Henry IV nel 1957. L'adolescente Tavernier fa amicizia con il compagno di scuola Volker Schlondorff, frequenta Henri Langlois alla Cinémathèque, fonda il cineclub Nickelodeon in pieno Quartiere Latino e scopre i tesori segreti del cinema americano di genere. Si improvvisa anche giornalista per aver modo di intervistare i suoi idoli quando passano a Parigi: incontrerà John Ford, John Huston, Raoul Walsh. Jean-Pierre Melville lo prende come assistente sul set di "Leon Morin, prete" e gli insegna i rudimenti della tecnica e un'idea morale della regia che non abbandonerà mai. Dal 1961 va anche a lavorare con il produttore principe della Nouvelle Vague, Georges de Beauregard e questo gli permette di fare le prove dietro la macchina da presa. Nei dieci anni successivi si guadagnerà da vivere come addetto stampa (tra l'altro per Stanley Kubrick) e sceneggiatore; gli è maestro Riccardo Freda a cui vorrà rendere più tardi omaggio producendo (e dirigendo insieme a lui) l'ultimo film del grande artigiano italiano, "La figlia di D'Artagnan".

Fin dall'esordio nella regia (in compagnia del suo alter ego come attore, Philippe Noiret) si lascia etichettare come regista "eclettico", amante delle opere in costume e dei melodrammi storici, ma sensibile alle varie forme di cinema di genere e capace, a sorpresa, di uno sguardo lucido e tagliente sulla società contemporanea. "Tutto ciò che distorce e drammatizza l'emozione e la realtà - scriverà - mi interessa. Questo si avvicina forse molto alla maniera in cui amo realizzare un film: una messa in scena basata sull'emozione che, lo spero, non è mai artificiosamente tradotta". Racconterà la Francia monarchica e aristocratica ("Che la festa cominci", "Il giudice e l'assassino"), quella attuale ("Des enfants gatés" e "L'esca" con cui vince l'Orso d'oro nel 1995), lo spirito medievale ("La passion Béatrice") e la distopia futuribile ("La morte in diretta"). Nel corso degli anni lo appassiona l'insensatezza della guerra e, sull'esempio dei suoi maestri, la racconta due volte: "La vie et rien d'autre" (1988) e "Capitaine Conan" (1995), due dei suoi capolavori. Nel solco del cinema francese classico non trascura la commedia sentimentale e di costume con affreschi incantevoli da "Une semaine de vacances" a "Daddy Nostalgie", a "Una domenica in campagna", miglior regia a Cannes, ma attinge ai grandi narratori del noir per i suoi film più personali: "Colpo di spugna" (girato in Africa) o "In the Electric Mist" girato in America nel 2009 con cui ritorna dopo una lunga malattia, la stessa che ne aveva minato la salute in questi ultimi anni. All'America del jazz e alla Parigi della sua giovinezza aveva reso uno straordinario omaggio, dirigendo in coppia con uno dei suoi idoli, Robert Parrish "Mississippi Blues" nel 1984 e poi nell'86 "Round Midnight" con le musiche di Miles Davis.

Dagli anni Novanta le sue passioni prevalenti sono però rivolte al cinema del passato. Nel '70 aveva pubblicato il suo primo libro saggistico su "30 anni del cinema americano". Vent'anni dopo allarga l'obiettivo su "50 anni di cinema americano" per poi pubblicare perfino una suggestiva guida turistica della Francia attraverso il suo cinema e una vera enciclopedia del cinema noir e del polar. Anche grazie al suo impulso il giovane Istituto Lumière di Lione (fondato nell'82), diventa una grande realtà internazionale d'archivio e restauro. Ne prenderà la testa come presidente, affiancando come direttore l'allora giovane Thierry Fremaux, oggi direttore del Festival di Cannes e di quello di Lione. Nel 2015 aveva ricevuto il Leone d'oro alla carriera.

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