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Piano e la casetta a Rebibbia, "il carcere non sia vendetta"

Piano e la casetta a Rebibbia, "il carcere non sia vendetta"

L'architetto inaugura la struttura per l'affettività

ROMA, 19 ottobre 2021, 14:39

di Silvia Lambertucci

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Renzo Piano in posa con la professoressa Pisana Posocco e le detenute di Rebibbia davanti alla casetta per l 'affettività - RIPRODUZIONE RISERVATA

Renzo Piano in posa con la professoressa Pisana Posocco e le detenute di Rebibbia davanti alla casetta per l 'affettività - RIPRODUZIONE RISERVATA
Renzo Piano in posa con la professoressa Pisana Posocco e le detenute di Rebibbia davanti alla casetta per l 'affettività - RIPRODUZIONE RISERVATA

Una casetta rossa, piccola piccola e semplice come fosse uscita dalla matita di un bambino. Ma con dentro tutto quello che serve a ricordare la vita di fuori, la famiglia, gli affetti, la normalità dei sentimenti. Nel carcere femminile di Rebibbia, a Roma, Renzo Piano inaugura la Casa per l'affettività e la maternità (Ma.Ma) di fatto uno dei suoi "rammendi" nelle periferie d'Italia, e sorride fiero in posa tra le detenute che per due anni, insieme con i tre giovani architetti e la professoressa Pisana Posocco che li ha coordinati, si sono impegnate a costruirla. "Una piccola cosa", sottolinea, "una scintilla in un tema complesso come quello delle carceri. Però le scintille contano, tante scintille insieme possono cambiare le cose". Ecco quindi che la casetta di Rebibbia, 28 metri quadrati tirati su in un boschetto che già da solo dà l'idea del rifugio, porta in sé proprio questa speranza. "Modesta nelle dimensioni, grandiosa nelle ambizioni", spiega gentile l'architetto e senatore a vita alla piccola platea raccolta per l'inaugurazione. In prima fila la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, il preside della Facoltà di architettura de la Sapienza Orazio Carpenzano, la direttrice del dipartimento di architettura (Diap) Alessandra Capuano, il provveditore  Carmelo Cantone del Dap, che in questo progetto ha svolto un ruolo fondamentale, applaudono a quello che la giovane direttrice del carcere Alessia Rampazzi definisce con orgoglio "un progetto fondamentale e non scontato nel nostro mondo". "Ha dato significato ad uno dei nostri compiti, che è quello di contribuire alla crescita del territorio", nota la rettrice, "nella sua essenzialità unisce in sé astrazione e costruttività, arte nella mente e nelle mani", sottolinea il preside. Tant'è, nell'universo comunque grande di Rebibbia femminile, dove le detenute attualmente sono 320 (le donne sono il 4 per cento della popolazione carceraria, gli istituti femminili solo 5 in tutto il Paese) , la casetta rossa con la sua scorza interna tutta di legno, il giardino di magnolie e melograni, i cespugli di ribes pensati per le merende dei bambini, si presenta un po' come un luminoso inizio. "Dobbiamo ancora stabilire come regolarne l'uso", precisa la direttrice. Ed è chiaro che non tutte ne potranno usufruire e non così spesso. L'idea però è lanciata, tanto che già si pensa a come estenderla, come ricorda Monica Cirinnà, relatrice di una legge per la realizzazione delle casette per l'affettività in tutti le carceri ("E' stata fermata dalla Lega, però vorrei ritirare fuori il tema").Una scintilla, quindi, che "certo non risolverà i problemi delle carceri", fa notare Piano. Ma che comunque "rinforza l'idea che il carcere non può essere punizione e vendetta, deve essere un luogo in cui la persona cambia". Realizzata in collaborazione con l'Università e la Facoltà di Architettura, terminata nel 2019 poi congelata dal lockdown, la casetta comincerà adesso la sua vita, illustra la direttrice, ospitando a rotazione le detenute con le loro famiglie, alle quali verrà offerta qualche ora di normalità, qualcosa che permetta loro di fare un po' una prova di futuro. "Uno spazio per vivere i sentimenti", suggerisce l'architetto, che intanto si guarda curioso intorno, osserva il piccolo drappello di detenute, sorride paterno ai tre progettisti Tommaso Marenaci, Attilio Mazzetto e Martina Passeri, borsisti del suo progetto del G124.L'argomento carcere lo appassiona: "non ne ho mai costruito uno ma il tema mi ha sempre attratto- rivela- come quello della sanità, dell'università, della scuola: sono i luoghi della civiltà, quelli dove i riti civili trovano spazio". Da una finestra del penitenziario, mentre al microfono parla la direttrice, una detenuta urla, cerca di richiamare l'attenzione. Il sorriso delle altre - una decina quelle ammesse alla cerimonia -non si spegne. Anzi, col permesso delle autorità una di loro tira fuori un foglietto con una poesia, poche strofe per sottolineare l'emozione di tutte. Si chiama Barbara, avrà forse trent'anni, i capelli biondi portati corti corti: "...affettività e maternità per noi qua so' fondamentali, forse per voi so cose banali/ serve a dimostra' che dentro il core/ non c'è solo criminalità ma anche affettuosità". L'architetto le si avvicina, si complimenta, le chiede il permesso di fotografare quei versi scritti a stampatello sulla carta a quadretti. Poi rilancia un auspicio che suona come un appello: "i progetti sono come i figli, mi auguro che questa casa abbia una vita felice, che tante persone la possano usare. Io comunque tornerò" 

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