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Alla XVI Biennale l'architettura è di tutti

Baratta e le curatrici, affrontiamo i temi del quotidiano

Una sala circolare, tutta bianca come la neve e il ghiaccio. Intorno un suono riproduce il rumore di fondo del vento, raffiche inclementi che mettono angoscia. Mentre sembra quasi di percepire il freddo e dal soffitto cala lentamente l'oscurità, il cielo si fa grigio, anche il rumore di fondo si fa più lontano, sordo, ma c'è, sai che devi farci i conti. E' Conditions, il lavoro di Dorte Mandrup che racconta l'esperimento eccezionale dell'Icefiord Centre in Groenlandia. Un'installazione che nel raccontare con efficacia la concretezza di un intervento audace per costruire un edificio in un luogo dove la natura è veramente impervia, appare in qualche modo paradigmatico della Biennale Architettura edizione 2018 che si aprirà a Venezia dal 26 maggio al 25 novembre, curata da Yvonne Farrell e Shelley McNamara.

Anche loro, le curatrici, appaiono un po' cosi': architette concrete, insieme dal 1978 a Dublino dove hanno condiviso anche gli studi, una sfilza di lavori grandi e piccoli realizzati in quarant'anni di professione alla quale hanno sempre affiancato l'insegnamento. Una rossa, l'altra bionda, il sorriso aperto da irlandesi e la forza di un curriculum condiviso zeppo di progetti e di riconoscimenti, Farrell e McNamara sono ciò che di più lontano si può immaginare dalle archistar. Figlie del minimalismo britannico che supera la maniera, sobrio e geometrico come lo splendido edificio per la Bocconi, anche quello super premiato, che hanno realizzato a Milano. E la mostra che hanno immaginato, con 71 progettisti ospiti e 63 Padiglioni Nazionali che si esercitano sullo stesso tema del Freespace, lo spazio libero condiviso, risente di questo approccio "naturale" all'architettura. Che è gioco, ricerca, pensiero. Ma soprattutto un'esperienza collettiva che si impegna a reimmaginare gli spazi per renderli più accoglienti e vivibili, ancora di più quando riguardano tutti. "Dobbiamo prenderci cura della cultura come ci si prende cura di un giardino" ripetono loro, rispondendo sorridenti alla stampa, sempre scortate dal presidente della Biennale Paolo Baratta.

Forse anche per questo e per dare voce alla loro convinzione che "la pratica dell'architettura significa perseverare, impegnarsi, rigenerare la continuità della cultura architettonica", in una grande sala al centro del Padiglione Centrale si trovano i lavori di 16 giovani architetti ai quali il duo Grafton (si chiama così il loro studio a Dublino) ha voluto affidare il ripensamento di altrettante architetture storiche, compresa la celeberrima Chiesa sull'Autostrada, di Giovanni Michelucci. Lo spazio dei giovani in continuità con quello dei maestri, Chipperfield, Caruso St John, Peter Zumthor, Cino Zucchi. Perché anche questa è una caratteristica di questa Biennale, la continuità e le connessioni tra progetto e progetto, come da un ambiente all'altro. Gli spazi qui rimangono enormi, è chiaro: per visitare tutto ci vuole ben più di un giorno e tanto lavoro di gambe (anche se una bella caratteristica di questa XVI edizione sono anche le panche e le sedute disseminate un po' ovunque per consentire al visitatore di prendere fiato) ma si avverte sempre il filo conduttore, che è quello, sottolinea Baratta, di "occuparsi di cose che appartengono al nostro spazio e al nostro orizzonte quotidiano". C'è quindi il gioco raffinato dell'australiano John Workle (Somewhere Other) che vede l'Australia a testa in giù in fondo al mondo e con un gioco di lenti e di specchi, di pareti e trompe l'oeil spinge a pensare che i luoghi e il nostro modo di considerarli sono anche una questione di punti di vista e prospettive. E c'è il lavoro, pragmatico e poeticamente risolutivo di Laura Perretti, che nel 2015 ha vinto il progetto per la riqualificazione del famigerato Corviale, quello che a Roma chiamano il serpentone, figlio mal cresciuto dell'utopia anni Settanta e di un pur bravo architetto come Mario Fiorentino. Lei il serpentone lo riqualifica intervenendo proprio sul Freespace, lo spazio condiviso che collega appartamenti ed esistenze, ripensando a cose semplici e importanti, come il verde, gli accessi, i punti di incontro. Ed è un progetto che le due curatrici, indicandolo a Baratta, definiscono "eroico". E ancora, c'è la poesia delle bianche colonne di Valerio Olgiati, che nello spazio delle Corderie si aggiungono alle colonne storiche "per acuire la consapevolezza della qualità che caratterizza questo luogo".

E c'è la pragmaticità colorata dell'americano Michael Maltzan che a Los Angeles ripensa un centro commerciale introducendovi una serie di mini appartamenti per single, completi di tutto, per dare una nuova opportunità ai senza tetto. C'è la riflessione di Elisabeth Hatz (Svezia) che in una sala raccoglie disegni di architetti di ogni epoca , Sironi vicino ad Aldo Rossi, e quella di Cino Zucchi che costruisce una sfera nera con interni violetti per raccontare una prospettiva sulla Milano degli anni Cinquanta. Poco sfoggio di tecnologie, piuttosto sogni, pensieri e interventi pratici. Perché l'architettura, ripete Baratta, "è la più politica delle arti ed è cosa che ci riguarda tutti". La folla dei ragazzi che già si accalca in queste ore di anteprima, fa pensare che pragmatismo e rigore di queste due bravissime donne architetto abbia fatto centro.

 

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