Franz West riposa sul divano ritratto in una piccola foto a parete, mentre vicino, nella prima sala del Padiglione Centrale, c'è l'atelier di Dawn Kaspar a cui segue il multietnico fare di migranti e rifugiati impegnati nella realizzazione di lampade da "portare a casa", in cambio di un'offerta sostenuta, nel progetto di Olafur Eliasson "Green light". Comincia così "Viva Arte Viva", l'esposizione internazionale d'arte a firma Christine Macel, promossa dalla Biennale di Venezia, lungo un percorso con 120 artisti - 103 per la prima volta nella mostra curatoriale - composto da un prologo e nove padiglioni che si snoda senza apparenti barriere, se non quelle delle indicazioni a parete che spiegano al visitatore che sta entrando ora nella sezione "dei Libri e degli Artisti", che apre la sequenza, ora in quella "dei Colori" o del "Tempo e dell'Infinito", che chiude la mostra all'Arsenale.
"E' una Biennale - dice il presidente Paolo Baratta - che parla delle nostre abitudini, consuetudini, sogni o utopie". Una esposizione dove l'artista è pieno protagonista del suo "otium" e del suo "negotium", del suo prendersi il tempo e del suo operare nel fare arte. Ai Giardini, nel Padiglione Centrale, Macel chiama a interrogarsi su quel momento in cui "nasce l'opera d'arte", quel tempo dove "vagabondaggio mentale e ricerca" sono fondamentali. E nel padiglione iniziale ci sono le carte da parati fatte sui disegni del premier albanese Edi Rama, artista divenuto politico a tempo pieno; ci sono libri raffigurati, volumi in tessuto, le opere-diari di Abdullah Al Saadi. Emblema "delle Gioie e delle Paure", la sequenza di ritratti di Marwan con un soggetto - a dirla con la curatrice - "che si decompone lentamente, si torce, si allunga, sparisce in frammenti colorati, perdendo ogni volume".
Tra le sale del Padiglione Centrale si aggira attento Francois Pinault, il magnate francese che poi saluta con calore Mark Bradford, protagonista del padiglione Statunitense. Le altre sette sezioni di un "viaggio per riconciliare il pubblico con l'arte", nel quadro di una funzione "pedagogica" che la Biennale sente nelle sue corde, si sviluppano all'Arsenale. Anche qui un inno al "fare", dove la stessa operosità del cucire materialmente l'opera è presente in più punti; un interrogarsi dell'artista attorno alle diverse problematiche della società attuale: dal collettivo in contrapposizione allo sfrenato individualismo, alla natura, al destino della Terra, al ruolo della donna, delle tradizioni come fonti a cui rivolgersi, al rapporto tra realtà e rappresentazione. Spulciando qua e là, i libri-opere di Maria Lai, la provocazione ecologista del 1968 di Uribunu di colorare il Canal Grande di verde, l'irruzione della tradizione sarda nell'opera di Michele Ciacciofera, gli sciamani di Ernesto Neto, gli inchiostri di Dan Miller accanto Griffa e Guarnieri ("dei Colori") o i disegni dell'artista Inuit Pootoogook che raccontano il mutamento di una civiltà. Una Biennale, insomma, che attraverso gli artisti - fondamentali gli appuntamenti di "tavola aperta", artista e pubblico assieme a pranzo - vuole recuperare "un umanesimo". "Un umanesimo - dice Baratta - nel quale l'atto artistico è a un tempo atto di resistenza, di liberazione e di generosità".