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Giorgio Ortona al Macro Testaccio

Giorgio Ortona al Macro Testaccio

Fino 15/1, la personale 'Nomi, cose e città’

ROMA, 08 dicembre 2016, 11:02

Daniela Giammusso

ANSACheck

- RIPRODUZIONE RISERVATA

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"Sono un pittore 'serio'. Come artista mi ritengo l'ultimo della serie A, ma la mia è un pittura presuntuosamente con la P maiuscola. Cerco di uscire fuori dai cliché. Anche se poi fisicamente mi sforzo sempre più di somigliare a un romeno: oggi sono loro che salvano l'Italia, che lavorano sul serio". Zuccotto celeste in testa, così, tra il serio e il faceto, Giorgio Ortona racconta le vedute e i personaggi di quella sua Italia dalle atmosfere anni '70, oggi raccolta in 'Nomi cose e città' (come il gioco che si faceva da bambini), personale che gli dedica il Macro Testaccio fino al 15 gennaio. In tutto 94 pezzi, a cura di Gabriele Simongini, "che vanno letti come fossero uno solo - spiega all'ANSA il maestro della 'matematica sensibile' - E' come se lavorassi a questa mostra da 56 anni, quanti ne ho adesso".
Nato a Tripoli, cresciuto in Italia, ebreo, una laurea in architettura e la passione per il jazz elettrico, ospite alla 54/a Biennale di Venezia nel Padiglione Italia e in quello della Repubblica Cubana, al Macro Testaccio Ortona ha portato le sue celebri vedute sulla città, le sue palazzine in costruzione, i cantieri, a volte ripetuti come fossero moduli musicali. In tele piccole come cartoline o grandi formato cinemascope, ecco i bagnanti, quelli di Ladispoli accanto a quelli di Tel Aviv. Zia Yvette e zia Laura, in veste da casa, il suocero, il cugino ("sono innamorato della famiglia vera, quella con i genitori che divorziano"). E ancora bassi elettrici, dentiere che sembrano rovine del Foro romano (o forse il contrario?), l'esultanza della nazionale di rugby, i profili di Kiev e Il Cairo. "Non racconto e non voglio raccontare niente - dice Ortona - I personaggi sono un pretesto per lavorare sul segno, sul ritmo, su ciò che è più imponderabile che oggettivabile. L'Italia anni '70? Era meravigliosa, schietta, autentica, dalla musica ai manifesti dei partiti". Difficilissimo però strappargli una definizione unica del suo lavoro. "Molti hanno creduto che le mie fossero opere di denuncia - dice - La verità è che sono un pittore che vive la città e il proprio tempo. Cerco la bellezza, anche tra le palazzine di periferia, perché a Roma ce ne sono di bellissime.
Cerco i palazzi come estetica. E quello che vedo dipingo, per trasfigurarlo. La passione per i cantieri? Voglio si veda lo scheletro delle cose - aggiunge - che si tratti dell'ossatura di un edificio o di un corpo umano". I colori sgargianti invece vengono da lontano. "Soffro l'influenza delle matite Giotto - conclude ridendo - Quando ero piccolo, se eri fortunato avevi la confezione da 16 o 24. Oppure, come me, quella da 8. Da adulto mi sono rifatto con una scatola maxi da 180 colori".

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