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Gregory Peck, 100 anni fa nasceva l'eroe di 'Vacanze romane'

Vincitore del premio Oscar nel 1962, con il film 'Il buio oltre la siepe'. Fu il simbolo dello spirito Usa, ma nel privato grande insicuro

 Il primo californiano purosangue a vincere un Oscar fu proprio lui, Eldred Gregory Peck, nato a La Jolla il 5 aprile 1916 da un farmacista irlandese e da un’insegnante di famiglia scozzese. Il suo sguardo dritto e sincero, le sopracciglia aggrottate sul sorriso timido, le solide convinzioni politiche (progressiste), il cattolicesimo non ostentato, l’allergia ai pettegolezzi e alle avventure sentimentali ne fecero ben presto il campione dell’America buona e a questo cliché l’attore si conformò volentieri, cercando sullo schermo il riflesso di se stesso e dei suoi principi. Ma questa dote che gli spianò la strada al successo contrastava con una profonda insicurezza interiore. I genitori divorziarono quando aveva appena cinque anni e nei suoi ricordi campeggia soprattutto una nonna volitiva che gli fece scoprire il cinema (diceva spesso di essere stato fortemente impressionato dalla visione di “Una notte all’opera”), il teatro, letture colte, disciplina scolastica fatta di buoni voti e di sano sport. Un incidente sportivo alla schiena gli avrebbe impedito di servire la patria durante la seconda guerra mondiale, ma non gli impedì invece il viaggio a New York, dove nel 1938 rimase folgorato dallo spettacolo “I Married an Angel”. Tornato a casa, si iscrisse alla Neighborhood Playhouse divenendone in breve la star indiscussa. Al cinema approda relativamente “adulto” (nel 1944) con il ruolo di un partigiano russo in “Tamara, la figlia della steppa” di Jacques Tourneur e in abito talare per “Le chiavi del Paradiso” di John M. Stahl con cui si guadagna la prima nomination all’Oscar. Passa appena un anno ed è già un divo grazie a “Io ti salverò” di Alfred Hitchcock che lo libera in fretta dal cliché rassicurante di “bravo giovane”: al contrario, la parte di un tormentato medico sofferente di amnesie e sospettato di omicidio, lo spinge a competere con l’ineffabile Cary Grant. “Per anni – dirà Peck – su ogni copione che mi offrivano c’erano le impronte di Grant”. In alternativa doveva rivaleggiare con Gary Cooper in quei ruoli “più grandi della vita” che sarebbero rimasti del resto i suoi favoriti. Ma nella vita privata beveva, adorava la birra da buon irlandese, fumava troppo, era tormentato e insicuro del suo matrimonio, contratto a 26 anni e durato dieci anni con tre figli tra cui il primogenito Jon che si sarebbe ucciso con un colpo di pistola.

Eppure la sua carriera sembrava non conoscere incertezze: adottato dai maggiori registi, amato dal pubblico anche in melodrammi come “Il cucciolo” (Clarence Brown, 1946) che gli fece nuovamente sfiorare l’Oscar, corteggiato persino dal tycoon David O’Selznick che lo scelse per “Duello al sole” in compagnia di Jennifer Jones (1946), si imponeva come l’astro fulgido dello star system nei generi più popolari, il western in prima fila. Anche qui Peck volle dimostrare di essere l’eroe in cui si riconosceva: allergico alle controfigure, imparò a cavalcare e sparare (pur avendo in odio le armi) e una volta fece a pugni sul set con Robert Mitchum mandandolo sonoramente al tappeto e costringendo il film a una pausa imprevista. Intanto Elia Kazan in “Barriera invisibile” del 1949 gli offriva un altro ruolo di grande intensità civile e lo promuoveva a campione dei progressisti, tenendolo però alla larga dai sospetti di comunismo negli anni della commissione McCarthy. In parallelo vestiva i panni del soldato eroico con “Cielo di fuoco” di Henry King (quarta nomination) e faceva di quel genere cinematografico una nuova bandiera perché in grado di rendere popolare il suo sentito antimilitarismo. “Se ho un rimpianto – avrebbe detto anni dopo – è che il pubblico non abbia capito come ‘I cannoni di Navarone’ era un atto d’accusa contro la follia della guerra; e sono invece orgoglioso di aver dato a registi come Robert Parrish e Lewis Milestone una chance perché i loro film sono stati grandi esempi di come si può parlare di pace mostrando i campi di battaglia”.

Nel 1953 incontrò William Wyler (un regista che in seguito lo avrebbe detestato, ma che gli regalò ruoli memorabili) nella trasferta italiana di “Vacanze romane” in cui debuttava la giovanissima Audrey Hepburn. Fu la commedia romantica dell’anno, coniò uno stile, portò nel mondo il mito della Vespa (giusto 70 anni fa) e regalò a Gregory Peck il grande amore. Sul set conobbe infatti la giornalista francese Véronique Passani e se ne innamorò all’istante: veniva dal tormentato divorzio dalla prima moglie, l’avrebbe sposata al ritorno a casa e i due non si sarebbero più separati fino alla morte dell’ormai anziano patriarca, il 12 giugno del 2003.

Dopo un decennio di successi, dal biblico “Davide e Betsabea” al nobile “L’uomo col vestito grigio”, dall’epico “Moby Dick” al teso “Il promontorio della paura”, per Gregory Peck venne finalmente l’ora dell’Oscar nel 1962 con “Il buio oltre la siepe” di Robert Mulligan. “Rimane il mio film preferito – diceva – perché vi ritrovo le ragioni per cui ho fatto questo mestiere: intrattenere facendo pensare”.

Paradossalmente fu però il suo canto del cigno: pur potendosi permettere di scegliere i copioni preferiti, Peck ritrova raramente il successo di prima e pian piano si rassegna a vedere che il mondo, intorno a lui, è cambiato. Avrà ancora successo, si concederà il lusso di civettare con Sophia Loren in “Arabesque”(1969) e di “incrociare le spade” con un mito come Laurence Olivier (“I ragazzi venuti dal Brasile, 1977), giocherà con se stesso apparendo in miniserie televisive come “Moby Dick” o in remake di classe (“Cape Fear” di Scorsese), ma accetterà quietamente di appartenere ormai a un altro tempo. Infatti quando i Democratici gli chiesero di contrastare in politica la rielezione di Ronald Reagan a governatore della California nel 1970, all’ultimo momento scelse di lasciar perdere: capiva di essere un simbolo sullo schermo, ma la sua coerenza gli impediva di uscire dalla finzione. O forse, una volta ancora, prendeva il sopravvento il Peck segreto, l’uomo che non voleva mostrare il suo vero volto e preferiva nascondersi in quegli eroi sognati da ragazzo e impersonati da adulto. 

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