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Beccaria, "L'italiano in 100 parole"

Beccaria, "L'italiano in 100 parole"

Dalla nostra lingua alle storie che parlano di noi

ROMA, 22 ottobre 2014, 11:40

Marzia Apice

ANSACheck

Gian Luigi Beccaria, L 'Italiano in 100 parole - RIPRODUZIONE RISERVATA

Gian Luigi Beccaria, L 'Italiano in 100 parole - RIPRODUZIONE RISERVATA
Gian Luigi Beccaria, L 'Italiano in 100 parole - RIPRODUZIONE RISERVATA

GIAN LUIGI BECCARIA, "L'ITALIANO IN 100 PAROLE", RIZZOLI EDITORE, PP.496, EURO 18.
    Annodare il filo delle parole per restituire una storia che, tra grandi esaltazioni e naturali trasformazioni, dal passato è giunta fino a noi: quel lungo, tortuoso cammino percorso nei secoli dalla nostra lingua italiana, e con essa, anche da noi come popolo. Impresa ambiziosa, ma non impossibile se della lingua e della sua storia si ha padronanza: è il caso di Gian Luigi Beccaria, linguista e critico letterario, che come in un gioco, in realtà serissimo, si è preso l'impegno di ricostruire ''L'italiano in 100 parole'', come recita il titolo del suo libro edito da Rizzoli. Nel volume - colto e complesso, ma di agevolissima lettura - Beccaria riesce nel miracolo di far scaturire da ogni singolo vocabolo, come se fosse un scrigno, racconti e aneddoti affascinanti. Dalle origini allo sviluppo dell'italiano nel corso dei secoli, tra citazioni ed etimologie, passando dal latino al volgare, da Dante, maestro insuperato, ai grandi della nostra letteratura più recente, le parole si rincorrono nel libro, e a volte sono del tutto inaspettate. Ci sono passione e plenilunio, ottimismo e mafioso, sì e autista, ma anche ciao, moschetto, vu cumprà e seconda repubblica. Non sempre però il significato è quello che ci aspettiamo, o magari lo è solo in parte, perché l'avventura di Beccaria prende strade inedite: la sola certezza è trovare in ogni parola sempre qualcosa di ciò che siamo o siamo stati. Ci sono i nostri modi di fare, le tradizioni, e anche le curiosità, come nel caso delle pagine relative ai termini bistecca/cotoletta: qui Beccaria racconta quanto sia stata importante l'operazione di unificazione della lingua realizzata da Pellegrino Artusi, autore del celebre manuale di cucina, verso un ''gusto medio'' (non solo del palato quindi) in grado di appianare le differenze. C'è poi memoria, l'ultima parola di questo appassionante elenco, a cui è affidato il senso di appartenenza alla comunità nazionale, da riscoprire proprio attraverso la cultura classica. Più si viaggia tra le pagine, più si ha la conferma di quanta ragione abbia l'autore: troppo spesso non ci fidiamo abbastanza della nostra lingua. Accade quando infarciamo il nostro modo di parlare con termini mutuati da altre lingue, prime fra tutte l'inglese, o con un intercalare inutile, una raffica di ''diciamo'', ''al limite'', ''praticamente'', ''come dire'', ''e quant'altro''. Oppure quando, sulla spinta della modernità a tutti i costi, ci facciamo travolgere da neologismi a volte improbabili e magari destinati a durare dalla sera alla mattina, da un frasario preconfezionato e omologante, dal linguaggio burocratico. Ma esiste il rischio concreto, fa notare Beccaria, di cadere nell'errore opposto, ossia quello di tentare di chiudersi in una presunta e molto fallibile ''purezza'' della lingua. Ciò non è possibile, perché la lingua è in continua evoluzione, nel suo creare e ricevere, nel suo aprirsi anche allo straniero. Come si legge nel libro, essa ''vive per le strade, nelle accademie e nei porti di mare, nei libri e nelle canzoni, nel mercato rionale e nel congresso scientifico''. E se non cambia insieme con la varietà umana e culturale che compone la comunità di cui è diretta espressione, vuol dire che allora ''assomiglia a un cimitero''.
   

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