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Storia della bambina perduta - estratto inedito

Storia della bambina perduta - estratto inedito

di Elena Ferrante

03 luglio 2014, 13:15

Redazione ANSA

ANSACheck

32.
Mi si mozzò il respiro, per una frazione di secondo non capii che cosa stava succedendo. La tazza del caffè tremò sul piattino, la gamba del tavolo mi urtò un ginocchio. Balzai su, mi resi conto che anche Lila si allarmava, stava provando ad alzarsi. La sedia le si inclinò alle spalle, lei cercò di afferrarla, ma lentamente, curva, una mano tesa davanti a sé, nella mia direzione, l'altra che si allungava verso la spalliera, gli occhi stretti come quando si concentrava prima di reagire. Il tuono intanto seguitava a correre sotto la palazzina, un vento di bufera sotterranea levava onde di un mare segreto contro il pavimento. Guardai il soffitto, la lampadina stava oscillando insieme alla copertura di vetro rosato.
Il terremoto, gridai. La terra si muoveva, una tempesta invisibile mi stava scoppiando sotto i piedi, scrollava la stanza con un urlìo di bosco piegato da raffiche di vento. I muri scricchiolavano, parevano gonfi, si scollavano e reincollavano agli angoli. Giù dal soffitto pioveva una nebbia di polvere cui si aggiungeva la nebbia che si allungava dalle pareti. Mi slanciai verso la porta urlando ancora: il terremoto. Ma il movimento era solo un'intenzione, non riuscivo a fare un passo. I piedi mi pesavano, pesava tutto, la testa, il petto, soprattutto la pancia. Eppure la terra su cui volevo poggiarmi si sottraeva, per una frazione di secondo c'era e poi subito dopo si allontanava.
Mi ricordai di Lila, la cercai con lo sguardo. La sedia era finalmente caduta, il lampadario oscillava, i mobili – soprattutto una vecchia argentiera con i suoi oggettini, bicchieri, posate, cineserie – vibravano insieme ai vetri delle finestre come erbacce su un cornicione quando c'è la brezza. Lila era in piedi al centro della stanza, curva, a testa china, gli occhi stretti, la fronte corrugata, le mani che tenevano la pancia come se temesse che le schizzasse via smarrendosi nello spolverio di intonaco. I secondi scivolavano via ma niente mostrava di voler tornare in ordine, la chiamai. Non reagì, mi sembrò compatta, l'unica tra tutte le forme non soggetta a sussulti, a tremiti. Pareva aver cancellato ogni sentimento: le orecchie non ascoltavano, la gola non inspirava aria, la bocca era serrata, le palpebre cancellavano lo sguardo. Era un organismo immobile, rigido, vivo solo nelle mani che a dita larghe stringevano la pancia.
Lila, chiamai. Mi mossi per afferrarla, trascinarla via, era la cosa più urgente da fare. Ma la mia parte subalterna, quella che credevo esaurita e invece ecco che risorgeva, mi suggerì: forse devi fare come lei, devi restare ferma, piegarti a proteggere la tua creatura, non correre via, rifletti con calma. Feci fatica a decidermi, raggiungerla era difficile, e tuttavia si trattava solo di un passo. L'afferrai alla fine per un braccio, la scrollai, lei aprì gli occhi che mi sembrarono bianchi. Il rumore era insopportabile, faceva rumore tutta la città, il Vesuvio, le strade, il mare, le case vecchie dei Tribunali e dei Quartieri, quelle nuove di Posillipo. Lei si divincolò, gridò: non mi toccare. Fu un urlo rabbioso, m'è rimasto impresso più dei secondi lunghissimi del terremoto. Capii che mi ero sbagliata: Lila, sempre al governo di tutto, in quel momento non stava governando niente. Era immobile per l'orrore, temeva che se solo l'avessi sfiorata, si sarebbe rotta.

33.
La trascinai all'aperto, con strappi violenti, spintoni, suppliche. Avevo paura che alla scossa che ci aveva paralizzate ne sarebbe seguita subito un'altra, più terribile, definitiva, e tutto ci sarebbe crollato addosso. La rimproverai, la pregai, le ricordai che dovevamo mettere in salvo le creature che portavamo in grembo. Così ci gettammo dentro la scia di grida terrorizzate, un clamore crescente associato a movimenti sregolati, pareva che il cuore del rione e della città fosse prossimo a scoppiare. Appena fummo in cortile, Lila vomitò, io lottai con la nausea che mi stringeva lo stomaco.
Il terremoto – il terremoto del 23 novembre 1980 con quel suo frantumare infinito, – ci entrò dentro le ossa. Cacciò via la consuetudine della stabilità e della solidità, la certezza che ogni attimo sarebbe stato identico a quello seguente, la familiarità dei suoni e dei gesti, la loro sicura riconoscibilità. Subentrò una sorta di sospetto verso ogni forma di rassicurazione, la disposizione a credere a ogni profezia di sventura, un'attenzione ossessiva ai segni della friabilità del mondo, e fu arduo riprendere il controllo. Minuti e minuti e minuti che non finivano. Fuori casa era peggio che dentro, tutto era mobile e urlante, fummo investite da dicerie che moltiplicarono il terrore. Si erano visti bagliori rossi verso la ferrovia. Il Vesuvio s'era risvegliato. Il mare era andato a sbattere contro Mergellina, la Villa comunale, il Chiatamone. Il cimitero del Pianto era sprofondato insieme ai morti, tutta Poggioreale era crollata. I carcerati o erano sotto le macerie o erano scappati e adesso ammazzavano la gente tanto per farlo. Il tunnel che portava alla Marina era venuto giù seppellendo mezzo rione che scappava. Le fantasie si nutrivano l'una dell'altra e Lila – vidi – credeva a tutto, tremava stretta al mio braccio. La città è pericolosa, mi sussurrò, ce ne dobbiamo andare, le case si crepano, ci cade tutto addosso, le fogne schizzano per aria, guarda i topi come scappano. Poiché la gente correva alle automobili e le strade si stavano intasando, cominciò a tirarmi, mormorava: vanno tutti nelle campagne, là è più sicuro. Voleva correre alla sua macchina, voleva raggiungere uno spazio aperto dove solo il cielo, che pareva leggero, ci poteva cadere in testa. Non riuscivo a calmarla.
Raggiungemmo l'automobile, ma Lila non aveva le chiavi. Eravamo scappate senza prendere niente, c'eravamo tirate la porta alle spalle e, ammesso che avessimo mai trovato il coraggio di farlo, non potevamo rientrare in casa. Afferrai una maniglia con tutte le mie forze, la tirai, la scossi, ma Lila strillò, si mise le mani sulle orecchie come se quel mio tirare producesse un suono e vibrazioni insostenibili. Mi guardai intorno, adocchiai un grosso sasso che s'era staccato da un muretto, spaccai un lunotto. Poi te lo faccio aggiustare, dissi, ora stiamocene qui, passerà. Ci sistemammo in macchina, ma non passò niente, avevamo continuamente l'impressione che la terra tremasse. Oltre il parabrezza polveroso, sorvegliavamo la gente del rione che si era stretta in crocchi a confabulare. Ma quando tutto pareva finalmente acquietato, ecco che qualcuno passava correndo e strillando, cosa che causava un fuggi fuggi generale e urti così violenti contro la nostra auto che mi fermavano il cuore.
Avevo paura, oh sì, ero spaventatissima. Ma con mia grande meraviglia non ero spaventata quanto Lila. In quei secondi di terremoto lei si era spogliata di colpo della donna che era stata fino a un minuto prima – quella che sapeva calibrare con precisione pensieri, parole, gesti, tattiche, strategie, – quasi che in quella circostanza la considerasse un'armatura inutile. Adesso era un'altra. Era la persona che avevo intravisto la volta che Melina era passata lungo lo stradone mangiando sapone; o quella della notte di Capodanno del 1958, quando era scoppiata la guerra dei fuochi d'artificio tra i Carracci e i Solara; o infine quella che m'aveva fatta chiamare a San Giovanni a Teduccio, quando lavorava nella fabbrica di Bruno Soccavo e credeva di essere malata di cuore e voleva lasciarmi Gennaro perché era sicura che sarebbe morta. Solo che ora quell'altra sembrava essere emersa direttamente dalle viscere sconvolte della terra, non assomigliava nemmeno un poco all'amica che pochi minuti prima avevo invidiato per come sapeva selezionare parole ad arte, non le assomigliava nemmeno nei lineamenti, che erano storpiati dall'angoscia. Io non avrei mai potuto subire una metamorfosi così brusca, la mia autodisciplina era stabile, il mondo mi restava intorno con naturalezza anche nei momenti più terribili. Io sentivo che Dede ed Elsa erano col padre a Firenze, e Firenze era un altrove fuori pericolo, cosa che di per sé mi acquietava. Io mi auguravo che il peggio fosse passato, che nessuna casa del rione fosse crollata, che Nino, mia madre, mio padre, Elisa, i miei fratelli si fossero di sicuro spaventati come noi, ma come noi di sicuro fossero vivi. Lei invece no, non riusciva a pensare a quel modo. Si torceva, tremava, si accarezzava la pancia, pareva non credere più a nessi stabili. Per lei Gennaro ed Enzo avevano perso ogni connessione tra loro e con noi, si erano disfatti. Emetteva una sorta di rantolo, a occhi sbarrati, si afferrava a se stessa, si teneva stretta. E ripeteva ossessivamente aggettivi e sostantivi del tutto incongrui con la situazione in cui ci trovavamo, articolava frasi prive di senso e tuttavia le pronunciava con convinzione, strattonandomi.
Per un tempo lungo fu inutile che le indicassi persone note, che aprissi lo sportello, mi sbracciassi, le chiamassi per ancorarla a nomi, a voci che potessero dire la loro su quella stessa brutta esperienza e così tirarla dentro un discorso ordinato. Le additai Carmen con suo marito e i bambini e altri, andavano in fretta, a piedi, verso la stazione. Le additai Antonio con la moglie e i figli, restai a bocca aperta per com'erano belli tutti, sembravano personaggi di un film, mentre si sistemavano con calma in un furgoncino verde che poi partì. Le additai la famiglia Carracci e affini, mariti, mogli, padri, madri, conviventi, amanti – vale a dire Stefano, Ada, Melina, Maria, Pinuccia, Rino, Alfonso, Marisa, tutti i loro figli – che apparivano e sparivano nella ressa, si chiamavano di continuo per paura di perdersi. Le additai l'auto di lusso di Marcello Solara che tentava rombando di sganciarsi dall'ingorgo di veicoli, lui aveva accanto mia sorella Elisa col bambino, e sui sedili posteriori le ombre pallide di mia madre e di mio padre. Strillai nomi con lo sportello aperto, cercai di coinvolgere anche Lila. Ma lei non si mosse. Anzi mi resi conto che le persone – soprattutto quelle che conoscevamo bene – la spaventavano ancora di più, specialmente se erano agitate, se urlavano richiami, se correvano. Mi strinse forte la mano e chiuse gli occhi quando, contro ogni regola, la macchina di Marcello montò sul marciapiede strombazzando e filò via tra la gente che sostava in chiacchiere o trascinava cose. Esclamò: oh Madonna, espressione che non le avevo mai sentito usare. Che c'è, le chiesi. Gridò ansimando che l'auto s'era smarginata, anche Marcello al volante si stava smarginando, la cosa e la persona zampillavano da loro stesse mescolando metallo liquido e carne.
Usò proprio smarginare. Fu in quell'occasione che ricorse per la prima volta a quel verbo, si affannò a esplicitarne il senso, voleva che capissi bene cos'era la smarginatura e quanto l'atterriva. Mi strinse ancora più forte la mano, annaspando. Disse che i contorni di cose e persone erano delicati, che si spezzavano come il filo del cotone. Mormorò che per lei era così da sempre, una cosa si smarginava e pioveva su un'altra, era tutto uno sciogliersi di materie eterogenee, un confondersi e rimescolarsi. Esclamò che aveva dovuto sempre faticare per credere che la vita avesse margini robusti, giacché sapeva fin da piccola che non era così – non era assolutamente così, – e perciò della loro resistenza a urti e spintoni non riusciva a fidarsi. Contrariamente a come aveva fatto fino a poco prima, prese a scandire frasi sovreccitate, abbondanti, ora impastandole con un lessico dialettale, ora attingendo alle mille letture che aveva fatto da ragazzina. Borbottò che non doveva mai distrarsi, se si distraeva le cose vere, che con le loro contorsioni violente, dolorose, la terrorizzavano, prendevano il sopravvento su quelle finte, che con la loro compostezza fisica e morale la calmavano, e lei sprofondava in una realtà pasticciata, collacea, senza riuscire più a dare contorni nitidi alle sensazioni. Un'emozione tattile si scioglieva in visiva, una visiva si scioglieva in olfattiva, ah che cos'è il mondo vero, Lenù, niente niente niente di cui si possa dire definitivamente: è così. Per cui se lei non stava attenta, se non badava ai margini, le acque si rompevano, veniva un diluvio, tutto se ne andava via in grumi sanguigni di mestruo, in polipi sarcomatosi, in pezzi di fibra giallastra. Ah, parlò a lungo. È stata la prima e l'ultima volta in cui ha cercato di chiarirmi il sentimento del mondo dentro cui si muoveva. Fino ad ora, disse ¬¬– e qui riassumo a parole mie di adesso, – ho creduto che si trattasse di momenti brutti che venivano e poi passavano, come una malattia di crescenza. Ti ricordi il capodanno del 1958, quando i Solara ci spararono addosso? Gli spari furono la cosa che mi fece meno paura. Prima, assai prima che loro sparassero, mi spaventò che i colori dei fuochi d'artificio fossero taglienti – il verde e il viola soprattutto erano affilati, – che ci potessero squartare, che le scie dei razzi strusciassero su mio fratello Rino come lime, come raspe, e gli spaccassero la carne, facessero sgocciolare fuori da lui un altro mio fratello disgustoso che o rimettevo subito dentro – dentro la sua forma di sempre, – oppure mi si sarebbe rivolto contro per farmi male. Per tutta la vita non ho fatto altro, Lenù, che arginare momenti come quelli. Mi faceva paura Marcello e mi proteggevo con Stefano. Mi faceva paura Stefano e mi proteggevo con Michele. Mi faceva paura Michele e mi proteggevo con Nino. Mi faceva paura Nino e mi proteggevo con Enzo. Ma proteggere che significa, è solo una parola. Dovrei farti, adesso, un elenco minuto di tutte le coperture grandi e piccole che mi sono costruita per starmene nascosta, e invece non mi sono servite. Ti ricordi quanto mi faceva orrore il cielo di notte a Ischia? Voi dicevate com'è bello, ma io no, non potevo. Ci sentivo un sapore di uovo marcio, uovo col nocciolo gialloverdognolo chiuso dentro l'albume e dentro il guscio, un uovo sodo che si spacca. Avevo in bocca stelle-uova avvelenate, la loro luce era di una consistenza bianca, gommosa, si attaccava ai denti insieme alla nerezza gelatinosa del cielo, la tritavo con disgusto, sentivo uno scricchiolio di granuli. Mi spiego? Mi sto spiegando? Eppure a Ischia ero contenta, piena d'amore. Ma non serviva, la testa trova sempre uno spiraglio per guardare oltre – sopra, sotto, di lato, – dove c'è lo spavento. Nella fabbrica di Bruno, per esempio, mi si spezzavano le ossa degli animali sotto le dita solo a sfiorarle e ne usciva un midollo rancido, ho avuto una tale paura che ho creduto di essere malata. Ma ero malata, avevo veramente il soffio al cuore? No. L'unico problema è sempre stato l'agitazione della testa. Non la posso fermare, devo sempre fare, rifare, coprire, scoprire, rinforzare e poi all'improvviso disfare, spaccare. Tu prendi Alfonso, mi ha sempre messo ansia, ho sentito che fin da ragazzino il filo di cotone che lo teneva insieme stava per rompersi. E Michele? Michele si credeva chissà chi, e invece è bastato trovare la linea di contorno e tirare, ah, ah ah, l'ho spezzato, ho spezzato il suo cotone e l'ho ingarbugliato con quello di Alfonso, materia di maschio dentro materia di maschio, la tela che tessi di giorno si disfa di notte, la testa trova il modo. Ma serve a poco, il terrore resta, è sempre nello spiraglio tra una cosa normale e l'altra. Se ne sta lì in attesa, l'ho sempre sospettato, e da ieri sera lo so di sicuro: non regge niente, Lenù, anche qua nella pancia, la creatura sembra che duri e invece no. Ti ricordi quando mi sono sposata con Stefano e volevo far ricominciare il rione punto e daccapo, solo cose belle, il brutto di prima non ci doveva essere più. Quant'è durato? I buoni sentimenti sono fragili, con me l'amore non resiste. Non resiste l'amore per un uomo, non resiste nemmeno l'amore per i figli, presto si buca. Guardi nel foro e vedi la nebulosa delle buone intenzioni confondersi con quella delle cattive. Gennaro mi fa sentire in colpa, questo coso qui dentro la pancia è una responsabilità che mi taglia, mi graffia. Voler bene scorre insieme al voler male, e io non riesco, non riesco a condensarmi intorno a nessuna buona volontà. L'Oliviero ha sempre avuto ragione, sono cattiva. Non so mantenere in vita nemmeno l'amicizia. Tu sei gentile, Lenù, con me hai avuto molta pazienza. Ma stasera l'ho capito in modo definitivo: c'è sempre un solvente che opera piano, con un calore dolce, e disfa tutto, anche quando il terremoto non c'è. Perciò, per favore, se ti offendo, se ti dico cose brutte, tu tappati le orecchie, non lo voglio fare e invece lo faccio. Per favore, per favore, non mi lasciare, se no cado giù.
Sì – dissi spesso, – va bene, ma adesso riposati. Me la tenni stretta accanto, alla fine si addormentò. Io restai sveglia a guardarla, come mi aveva raccomandato una volta. Ogni tanto avvertivo nuove piccole scosse, qualcuno urlava di terrore dentro le automobili. Adesso lo stradone era vuoto. La creatura mi si muoveva nella pancia come uno sciacquio, toccai il ventre di Lila, anche la sua si muoveva. Si muoveva tutto: il mare di fuoco sotto la crosta terrestre, e le fornaci delle stelle, e i pianeti, e gli universi, e la luce dentro la tenebra, e il silenzio nel gelo. Ma io, anche adesso che ci riflettevo sull'onda delle parole sconvolte di Lila, sentivo che in me lo spavento non riusciva a mettere radici, e perfino la lava, tutta la materia in fusione che immaginavo col suo ruscellare igneo dentro il globo terrestre, e la paura che mi metteva, si sistemavano nella mente in frasi ordinate, in immagini armoniche, diventava un lastricato di pietre nere come per le strade di Napoli, un lastricato di cui io ero sempre e comunque il centro. Mi davo peso, insomma, sapevo darmelo, qualsiasi cosa accadesse. Tutto ciò che mi investiva – gli studi, i libri, Franco, Pietro, le bambine, Nino, il terremoto – sarebbe passato e io – qualsiasi io tra quelli che ero andata sommando, – io sarei rimasta ferma, ero la punta del compasso che è sempre fissa mentre la mina corre intorno tracciando cerchi. Lila invece – ora mi pareva chiaro, e questo mi insuperbì, mi intenerì – faticava a sentirsi stabile. Non ci riusciva, non ci credeva. Per quanto ci avesse sempre dominati tutti e a tutti avesse imposto e imponesse un modo d'essere, pena il suo risentimento e la sua furia, lei avvertiva se stessa come una colata e tutti i suoi sforzi erano, a conti fatti, rivolti soltanto a contenersi. Quando, malgrado la sua ingegneria preventiva sulle persone e sulle cose, la colata prevaleva, Lila perdeva Lila, il caos pareva l'unica verità, e lei – così attiva, così coraggiosa – si cancellava atterrita, diventava niente.

 

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