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Quei 42 corpi in fila la prima immagine della tragedia del Cermis

Cronista trentino, le tute da sci sembravano perdere colore

"I 42 corpi erano a terra, in fila su dei teli, uno accanto all'altro, con gli infermieri e i medici che si chinavano e li ricomponevano. Era l'epoca delle prime tute da sci colorate, ma anche quelle più sgargianti in quel momento andavano smarrendo il colore, o almeno così mi sembrò, forse per l'emozione. I teli sotto erano macchiati di sangue".

    Sono le scene che si trovarono di fronte i cronisti trentini accorsi dopo la prima tragedia del Cermis, il 9 marzo del 1976, tra cui Luigi Sardi, ora 77 anni, che scriveva per il quotidiano locale Alto Adige.

    Le salme delle vittime erano in un corridoio dell'ospedale di Cavalese. "C'erano anche il procuratore, Mario Agostini, e il presidente della Giunta provinciale, Giorgio Grigolli - racconta - spersi, spaventati. All'ingresso invece si erano riuniti dei responsabili delle funivie e dei collaudatori - spiega - e discutevano tra loro: quella funivia non poteva crollare. Il cavo portante, che si chiamava Ercole, era spesso 52 millimetri, composto di un sapiente intreccio di 148 fili in acciaio e canapa, pesante 58 tonnellate e lungo 2.340 metri. Lo diceva una targa alla stazione di partenza. Quel cavo era capace di portare 32 tonnellate, ma la cabina cadde da 50 metri d'altezza sul prato innevato, dopo che la fune traente si accavallò su quella portante, tranciandola. Avvenne dopo che il manovratore Carlo Schweizer, senza patente, alla stazione di mezza via al Dos dei Laresi, ebbe l'ordine di farla ripartire, dopo che si era bloccata. Eseguì ed escluse il circuito di sicurezza. Usò una chiave che non doveva essere toccata. Invece l'usura del metallo ne dimostrava l'abuso, come si legge nella sentenza del tribunale di Trento del 29 dicembre 1976" che Sardi cita nel suo libro 'I due Cermis' del 2002, Curcu e Genovese.

    "Il manovratore senza patente - racconta di Schweizer il cronista - mi chiamava al giornale ogni giorno e mi ripeteva sempre la sequenza dei fatti. Quando lo incontravo sul posto, lo trovavo sempre più logoro nel vestito e più smunto nel viso. Lo rividi anche anni dopo, alla seconda tragedia del Cermis.

    Faticavo a stringergli la mano, perché pensavo al suo dito che aveva premuto il pulsante che aveva escluso la sicurezza e causato tutti quei morti".

    "Dopo l'ospedale quella sera del 9 marzo del 1976 - aggiunge Sardi - corremmo a piedi a vedere il punto dove la cabina era crollata. Non era vicino, ma quand'è così ci vai comunque. Era buio, con la sola luce delle fotoelettriche di pompieri, ambulanze e carabinieri. Ma ormai le sirene erano tutte spente, segno che nulla più c'era da fare. La cabina era sfasciata sulla neve e vicino c'erano rottami di sci e sangue. Il giorno dopo, col Lagorai illuminato da un sole straordinario, salii sulla montagna fino al punto dov'era caduto il cavo: aveva dei refoli azzurrini dov'era stato tagliato, come bruciato".

    "Chi era in paese al momento del crollo - racconta delle testimonianze raccolte - descrisse un rumore terribile, come di un terremoto, quando a valle della funivia caddero i contrappesi. Poi ci fu l'arrivo dei parenti delle vittime e la messa funebre con le 42 bare tra la folla silenziosa e singhiozzante. E la gente della valle con una gran pena nel cuore, insieme alla consapevolezza che quella tragedia avrebbe segnato un duro colpo per il nome di quella località, a interrogarsi su cosa fare. E la prima idea fu quella di rifare la funivia: quella che nel 1998 un aereo militare degli Usa si riporto via" conclude citando la seconda tragedia nello stesso luogo. "Erano gli anni del boom dello sci - spiega - e le piste erano affollatissime. Io al Cermis andavo ogni mercoledì, nel mio giorno di riposo, perché era la stazione più bella, nuova, accanto a una cittadina come Cavalese, comoda da Trento".

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