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L'altra resistenza, i 600 mila italiani che dissero 'no'

Convegno e mostra a Cracovia sui militari internati in Polonia

05 febbraio, 17:16

(ANSA) - CRACOVIA - Hanno combattuto una guerra che non era la loro, erano stati prima traditi dai capi e poi perseguitati dagli ex alleati, e infine sono stati messi ai margini della storia più con fastidio che con imbarazzo. Sui soldati italiani dell'8 settembre 1943 per troppo tempo si è stagliato il marchio della vergogna, quando invece avrebbero dovuto essere celebrati allo stesso modo di coloro che cercavano il riscatto dal fascismo e dalla guerra perduta impugnando le armi. Resistenti gli uni, resistenti gli altri, ma due metri e due misure per la storia raccontata in Italia.

La città di Cracovia, capitale storica della Polonia reale, rende omaggio agli internati militari italiani (Imi) rinchiusi nei campi del Governatorato Generale, con una mostra voluta da Diego Audero Bottero, con la collaborazione di Katarzyna Kurdziel, e ospitata nei locali dell'Istituto italiano di cultura diretto da Ugo Rufino.

Dietro il filo spinato dei lager tra i 600 mila e i 650 mila ebbero la forza e il coraggio di dire 'no' alle fortissime pressioni a entrare nei ranghi dell'esercito fascista e di essere fedeli all'alleanza col Terzo Reich di Hitler. Quel 'no' veniva pagato con fame, freddo, malattie, privazioni di ogni genere, nei lager della Polonia occupata e della Germania, con disprezzo, angherie e violenze di ogni genere.

Una storia riscoperta e valorizzata, poco nota ai giovani non solo polacchi, al centro di un convegno ospitato nella sala conferenze del Museo Schindler: ovvero l'ex fabbrica di pentole entrata nell'immaginario collettivo con il film di Steven Spielberg 'Schindler's List'. Di queste figure marginalizzate che hanno patito l'impossibile hanno parlato l'ideatore e curatore della mostra, Autero, il direttore del Museo di Treblinka Edward Kopowka, la direttrice del Centro di documentazione sui prigionieri di guerra di Lambinowice Violeta Rezler, il direttore del Museo storico di Cracovia Tomasz Owoc, lo storico italiano esperto di Polonia e Seconda guerra mondiale Marco Patricelli.

Per i polacchi presenti è stata l'occasione di riappropriarsi di una pagina di storia, non del tutto scritta, se non nelle sue linee più generali. Alcuni luoghi che furono muti testimoni delle fucilazioni arbitrarie di italiani restano sconosciuti, di altri si sono riappropriate le foreste, mentre inesorabilmente scompaiono i pochi testimoni di quel massacro di italiani. Ai soldati i nazisti non riconobbero lo status di prigionieri di guerra e ne fecero oggetto di ogni sorta di angheria perché considerati 'traditori' e anche perché nella stragrande maggioranza si rifiutavano di tornare a combattere per Mussolini. Ospitati in baracche fatiscenti esposte ai gelidi venti dell'est, avevano razioni ridottissime, niente pacchi della Croce Rossa, niente medicinali. Esposti a temperature proibitive, morivano a frotte di fame, di freddo e di malattie.

Eppure avevano il coraggio di dire 'no' e di ribadirlo ogni volta. Solo un'esigua minoranza cederà alle privazioni e accetterà di tornare in Italia, dove un'altra fetta di militari diserterà alla prima occasione possibile. Quelli che non tornarono alla fine della guerra hanno trovato riposo, dopo la traslazione dei resti, nel cimitero di Varsavia dove sono custodite anche le salme dei prigionieri italiani della prima guerra mondiale, nonché in altri cimiteri vicini ai luoghi di esumazione, e nella nuda terra dove venivano piantati alberi per impedirne la localizzazione. Tutti quelli fucilati dai nazisti venivano fatti spogliare dell'uniforme, affinché nessuno potesse riconoscerli come italiani.

Alla mostra sugli internati militari italiani visitabile fino alla fine del mese si affianca un volume-catalogo bilingue di 244 pagine curato da Audero, con il contributo di altri storici e di traduttori , con un ricco apparato di immagini e testimonianze che provengono da fondazioni, archivi privati e persino acquisizioni recentissime sostenute dallo stesso autore.

Alberto Guareschi, figlio di Giovannino Guareschi che fu uno dei 600 mila che dissero 'no', ha fornito per l'occasione memorie e documentazioni di famiglia.

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