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I due capitalismi dell'Europa post-socialista

Tra neoliberismo e "solidarietà esclusiva"

02 aprile, 18:57
(ANSA) - TRIESTE, 2 APR - Dopo la caduta del muro di Berlino, i paesi dell'Europa centro-orientale hanno dovuto affrontare la sfida del passaggio da un'economia pianificata a un'economia di mercato. All'apice della popolarità, economisti neoliberali, quali Leszek Balcerowicz in Polonia e Lajos Bokros in Ungheria, occuparono posizioni di spicco nei primi governi democraticamente eletti, avviando la cosiddetta "terapia d'urto", consistente nell'immediata liberalizzazione dei prezzi, nella stabilizzazione macroeconomica e nella privatizzazione della proprietà statale. Non fu che l'inizio. Nei vent'anni successivi, gli Stati post-socialisti adottarono politiche d'avanguardia neoliberale, come la deregolamentazione radicale del mercato del lavoro, la "flat tax", la privatizzazione delle pensioni ecc. Quei paesi erano diventati per l'Europa occidentale dei centri di produzione a basso costo e dovevano pertanto segnalare la propria competitività agli investitori esteri. In alcuni casi, le riforme furono avviate nonostante il parere contrario delle organizzazioni internazionali coinvolte, quali la Banca Mondiale o il Fondo monetario internazionale.

Il processo di riforme non fu omogeneo nella regione. Se gli Stati baltici si rifecero a un modello puro di neoliberismo, la Croazia ed il Gruppo di Visegrád (Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia) lo adattarono al proprio contesto, applicando il dogma neoliberista meno fedelmente: ne sono derivati uno stato sociale più generoso, un mercato del lavoro solo parzialmente liberalizzato, privatizzazioni e deregolamentazioni selettive. In altri, casi, come in Bulgaria, Romania ed Europa sud-orientale, il neoliberismo assunse i tratti di una sorta di "non-regime" su base clientelare.

Le differenze tra questi paesi si sono acuite dopo la crisi del 2008, soprattutto per quanto riguarda la politica economica.

Nel loro avanguardismo neoliberale, Stati baltici, Bulgaria e Romania hanno rafforzato la spinta riformatrice, introducendo misure di austerità dannose dal punto di vista sociale. Non capita spesso che qualcuno accusi il direttore generale del Fondo monetario internazionale di essere un ideologo della sinistra e sostenitore del capitalismo statalista. Eppure questo è successo a Dominique Strauss-Kahn durante la sua visita in Romania nel 2010, mentre tentava di convincere (inutilmente) i politici locali a distribuire più equamente i tagli allo stato sociale. Tale foga è in linea con una visione dell'Europa post-socialista relegata a filiera, che fornisce manodopera a basso costo all'Occidente.

Il Centro Europa ha scelto di percorrere un'altra strada.

Dopo la crisi, il Gruppo di Visegrád si è dissociato dal neoliberismo, introducendo una serie di riforme, tra cui la rinazionalizzazione dei fondi pensione in Polonia e Ungheria, la sostituzione della "flat tax" con tassazione progressiva in Slovacchia, nuove tasse contro banche e multinazionali ecc. I paesi dell'Europa centrale stanno così diminuendo la propria dipendenza dal capitale occidentale attraverso la modernizzazione dei loro settori produttivi e il rifiuto, spesso di stampo populista, del neoliberismo economico, che aveva in primo luogo attirato gli investitori esteri.

L'avvento del discorso anticapitalista è coinciso con l'ascesa dei partiti populisti di destra. L'ondata nazionalista ha avuto inizio con l'elezione in Polonia del partito Legge e giustizia (PiS) dei gemelli Kaczyński nel 2005. Il trend si è consolidato con la vittoria dell'Alleanza dei giovani democratici (Fidesz) in Ungheria, che sotto la guida di Viktor Orbán ha schiacciato la sinistra magiara durante le elezioni del 2010 e del 2014. Ad essi si sono affiancati partiti radicali e apertamente razzisti, quali Jobbik in Ungheria, Kukiz'15 in Polonia o il Partito nazionale Slovacco (Sns).

Se è logico che tali partiti attraggano i propri elettori attraverso politiche nativiste ostili ai migranti e alle minoranze, è meno chiaro come mai forze politiche essenzialmente anti-comuniste abbiano adottato retorica e politiche anti-capitaliste. Tradizionalmente, i partiti di destra erano sostenitori di un ruolo limitato dello stato nell'economia, della privatizzazione, di minore tassazione e regolamentazione. Tuttavia, negli ultimi decenni si è visto un riorientamento "socialista" di partiti ex filo-capitalisti, quali il Front National in Francia e i Liberali (FPÖ) in Austria. A essersi riallineato è il segmento dell'elettorato composto dalla classe operaia. I lavoratori che furono in passato i principali sostenitori dei partiti di sinistra, rappresentano oggi il nucleo elettorale della destra radicale occidentale. I populisti di destra hanno sfruttato appieno questo riassetto e adesso parteggiano per politiche di "solidarietà esclusiva", ovvero per misure solidaristiche anti-globaliste, che escludono gli immigrati e le minoranze dai diritti di cittadinanza.

Similmente prospera in Europa centrale l'anti-capitalismo di destra. La genesi è più recente ed è riconducibile all'insoddisfazione dei cittadini degli stati post-socialisti sia nei confronti della Ue, sia nei confronti della transizione al capitalismo. A dieci anni dall'allargamento europeo a Est, essi hanno visto infrangersi le speranze di una rapida convergenza con gli standard di vita occidentali.

La crescente disuguaglianza economica (più percepita che reale) crea l'impressione che l'economia di mercato abbia beneficiato solo una minoranza della popolazione. La crisi non ha fatto che incanalare tali sentimenti in una diffusa protesta elettorale, nella quale i propositori della "solidarietà esclusiva" (o per usare un termine démodé nazional-socialisti) sono usciti vincitori. (ANSA).

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