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Primavera di Praga, 50 anni fa invasione sovietica

Oltre 6.000 blindati e mezzo milione soldati varcarono confini

19 agosto, 17:31
(ANSA) - PRAGA - La primavera del 1968 per Praga e per la Cecoslovacchia era stata il preludio a un'estate caldissima e a un gelido autunno che sarebbe durato venti anni. Il sogno di un «socialismo dal volto umano» si sarebbe infranto nella notte tra il 20 e il 21 agosto sotto lo sferragliare dei cingoli dei carri armati del Patto di Varsavia. Un'invasione militare, spacciata dalla puntuale "dinsinformacja" del Cremlino per una "liberazione" dai «controrivoluzionari». Più di seimila blindati sovietici, tedesco-orientali, polacchi, ungheresi e bulgari (i romeni si erano chiamati fuori) e circa mezzo milione di soldati irrompevano nei confini cecoslovacchi, indifesi perché l'esercito era stato inviato verso la frontiera con la Germania occidentale per un'esercitazione che Mosca, luciferinamente, aveva programmato già a maggio.

Accadeva cinquanta anni fa. Il Partito comunista cecoslovacco di Alexander Dubček aveva appena il tempo di anticipare il XIV congresso straordinario previsto per settembre e approvare integralmente in una grande fabbrica di locomotive alla periferia di Praga il Programma d'azione pubblicato il 5 aprile e già votato dal Comitato centrale: un piano radicale di riforme che investivano l'economia e separavano il ruolo e il potere del partito dagli organismi istituzionali e dal governo. Un'eresia in piena regola, per Mosca e per il Pcus, quindi inaccettabile.

La mattina del 21 agosto le vie di Praga erano invase dai corazzati sovietici, ma erano anche piene di gente smarrita per la piega presa dagli eventi e determinata a non subirli. Una marea umana si era riversata in piazza Venceslao. Erano stati rovesciati i tram, erano state improvvisate barricate. I praghesi e i cecoslovacchi non capivano cosa stesse accadendo davanti ai loro occhi. Chiedevano «perché?» ai soldati del Patto di Varsavia che ne sapevano meno di loro: i generali avevano detto che sarebbero stati mandati in Ucraina per un'esercitazione, non in Cecoslovacchia per reprimere con la forza quella che solo moralmente era una rivolta, e per di più contro i civili. Allora qualcuno con il gesso aveva cominciato a disegnare sui panzer una svastica. Nel 1945 i sovietici erano stati accolti come liberatori dai nazisti e adesso erano invasori. «Anche Caino era un fratello», aveva scritto qualcun altro: i russi erano fratelli slavi, ma nell'agosto del 1968 stavano schiacciando un legittimo anelito alla libertà. Praga era paralizzata. I fili telefonici delle cabine erano stati tagliati. I treni e i bus verso la capitale erano improvvisamente sospesi. Si diceva che erano arrivati i russi, non si sapeva niente altro.

Leonid Brežnev aveva deciso di usare il pugno di ferro contro i cecoslovacchi che si stavano pericolosamente allontanando dall'ortodossia comunista. Il 27 giugno il "Manifesto delle 2000 parole" redatto dallo scrittore Ludvík Vasulík aveva visto l'adesione entusiasta di migliaia di esponenti del mondo della cultura, dell'arte e dello sport, con una forte richiesta di accelerazione del processo di democratizzazione. A luglio la stampa sovietica e quella della Ddr avevano ammonito Praga sui rischi di «imperialismo», «deviazionismo» e «controrivoluzione»; il 19 agosto, alla vigilia dell'ordine di invasione, lo stesso Brežnev aveva scritto una lettera a Dubček nella quale esprimeva il suo disappunto per quello che accadeva in Cecoslovacchia. La decisione era stata già presa. Nonostante l'impossibilità di resistere militarmente (il piano contemplava anche il dominio del cielo con 550 aerei da combattimento e 250 da trasporto truppe), una resistenza ci fu, come si poteva e con i mezzi a disposizione, non solo passiva. Si registrarono centinaia morti da una parte e dall'altra, ma soprattutto dalla parte dei cecoslovacchi. L'occidente poteva solo stare a guardare, a esprimere simpatia e solidarietà a un popolo aggredito, e nulla più. I partiti comunisti erano costretti a fare un esame di coscienza, non sempre convinto e non sempre aderente ai fatti e agli eventi. La propaganda di Mosca insisteva sulla liberazione del Paese dai controrivoluzionari, la radio di Praga continuava a diffondere disperati messaggi nell'Europa libera esortando a non credere a quella versione palesemente falsa. Una versione ripresa di recente nella Russia di Putin, in un documentario televisivo che ha suscitato le proteste formali della Repubblica Ceca e della Slovacchia.

Il 24 agosto Dubček e gli altri esponenti del governo cecoslovacco venivano portati a Mosca e qui obbligati ad accettare la presenza delle truppe del Patto di Varsavia e a rinunciare al programma di riforme. Il sogno della primavera di Praga svaporava nell'alba grigia del Cremlino. Cominciava da allora la "normalizzazione", ovvero la repressione e il riallineamento all'ortodossia sovietica. Il 16 gennaio 1969 lo studente universitario Jan Palach, senza dire una sola parola, si cospargeva di benzina e si dava fuoco in piazza Venceslao. Il mondo veniva percorso da un brivido di orrore e di ammirazione per quel gesto disperato che il regime bollava in un trafiletto sulla stampa come «atto di uno squilibrato». Centinaia di migliaia di persone partecipavano ai funerali di Palach, sfidando il regime. La Filarmonica Ceca riusciva incredibilmente a tenere due concerti in sua memoria, prima che le autorità intervenissero a proibirlo. Il 17 aprile Dubček veniva destituito e il suo posto preso da Gustav Husák. A Klárov, ai piedi del castello e all'ombra di un albero, era posizionata una piccola targa in memoria di Marie Charouskavá, una studentessa morta il 26 agosto 1968, a ventuno anni. Uccisa dai soldati sovietici, ma di questo non c'è alcun accenno sul marmo nero.

Quella voluta omissione ha consentito alla lapide di non essere rimossa nel corso dei ventuno anni di regime comunista.

L'attuale presidente della Repubblica Ceca, Miloš Zeman, all'epoca era un giovane docente universitario che si era rifiutato di firmare un documento nel quale si sosteneva che i fatti del 21 agosto 1968 erano una "liberazione" e non un'invasione. Come lui migliaia e migliaia di cecoslovacchi, non solo intellettuali. Il celebre campione olimpionico Emil Zátopek, «la locomotiva umana», venne spedito a lavorare in una miniera di uranio e dopo sei anni rimandato a Praga a fare lo spazzino. Zeman venne rimosso dalla cattedra nel 1970. Tramite il suo portavoce ha fatto conoscere l'intenzione di non pronunciare alcun discorso commemorativo o celebrativo, perché ciò che aveva da dire lo aveva fatto cinquanta anni prima, quando ci voleva molto coraggio e il prezzo da pagare era molto alto: mille discorsi di oggi non valgono le poche dignitose parole di allora. (ANSA).

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