(di Matteo Guidelli)
(ANSA) - ROMA, 7 NOV - La Croce Rossa internazionale parla di
28mila bambini di oltre 60 paesi, piccoli senza colpe trascinati
da padri e madri nell'inferno siriano: sono i figli dell'Isis
che dopo il disfacimento dello Stato Islamico vivono nei campi
profughi dove sono detenuti i combattenti sopravvissuti e le
loro mogli. L'undicenne albanese nato a Lecco era uno di loro ed
ora che è al sicuro in ambasciata a Beirut l'attenzione di chi è
riuscito a portarlo via da quell'orrore si concentra sugli altri
piccoli ancora sparsi tra i campi di Al Hol, Heyn Issa e Roj.
Perché gli italiani figli del jihad sono almeno altri 7.
Su tre di loro, in particolare, è concentrata l'attenzione
del Ros e della procura di Milano: sono i figli di Alice
Brignoli e Mohammed Koraichi, lei italiana lui marocchino con
cittadinanza italiana che hanno lasciato Bulciago in provincia
di Lecco per unirsi all'Isis nel 2015. Entrambi si trovano nel
campo di Al Hol. "Stiamo svolgendo una serie di attività già
messe in atto per l'11enne per cercare di riportarli in Italia
in modo che possano essere portati a giudizio - dice una fonte
qualificata - per i bambini dovrà esserci un'attenzione
particolare da parte del mondo civile, per capire come
reinserirli nella società e dar loro un futuro diverso".
I foreign fighters italiani o legati all'Italia partiti per i
teatri di guerra - stando ai dati di Antiterrorismo e Procura
nazionale antimafia ed antiterrorismo - sono circa 140, 25 dei
quali italiani o naturalizzati italiani. 50 sarebbero morti (4
italiani o naturalizzati) mentre altri 8 sono rientrati in
Europa e sono monitorati costantemente. Nei campi in Siria ce ne
sarebbero cinque: e oltre ad Alice e suo marito altre due sono
donne. Si tratta di Sonia Khediri, italo-tunisina che viveva nel
trevigiano, partita per la Siria nel 2014 a 17 anni e moglie di
Abu Hamza al Abidi - un pezzo grosso di Daesh ucciso in
combattimento - e di Meriem Rehaily, 23enne padovana di origine
marocchina che ha una condanna per arruolamento con finalità di
terrorismo. Entrambe avrebbero due figli ed entrambe hanno fatto
sapere di voler tornare. "Meriem si è pentita - ha detto il
padre in un'intervista alla Tgr del Veneto meno di un mese fa -
Ha sbagliato ed è pronta a pagare per gli errori che ha fatto.
Ma i bambini devono poter andare a scuola. Hanno paura e se li
facciamo crescere lì facciamo un grande errore". Lei stessa, in
un'intervista del giugno 2018 a Fausto Biloslavo che l'ha
incontrata a Camp Roj, diceva di essersi pentita. Suo figlio più
grande ha quasi 3 anni, il piccolo 20 mesi. "Mi hanno fatto il
lavaggio del cervello ma quando sono arrivata qui ho visto la
realtà dell'Isis e ho capito che avevo sbagliato. Non ho fatto
nulla né in Italia né in Siria ma ormai è tardi e se vado in
carcere va bene, ma almeno rivedo mia madre".
Anche Sonia vuole tornare. Lei, almeno fino ad un anno fa,
era nel campo di Heyn Issa, con i suoi due bambini di 3 anni e 4
mesi, dopo che il marito era stato ucciso con un drone e lei
fatta prigioniera. "Ho perso la mia vita quando sono entrata in
Daesh e ora sono qui prigioniera - ha raccontato sempre a
Biloslavo - Quando mi hanno parlato di Daesh ho immaginato
qualcosa di più grande di quello che ho visto e dunque l'ho
amato senza vederlo. Voglio tornare, ma ho paura di rimanere in
carcere e non vedere più i miei bambini".
Che il futuro di quei bambini, di tutti e 28mila, sia un
grande problema da affrontare per le democrazie occidentali, ne
è ben consapevole il presidente della Croce Rossa internazionale
e di quella italiana Francesco Rocca, che al confine tra Siria e
Libano ha accolto l'undicenne. "I governi dei paesi degli
stranieri presenti nei campi in Siria devono agire per alleviare
la sofferenza di queste persone vulnerabili. Siamo consapevoli
della complessità della situazione e delle preoccupazioni
legittime - dice - ma questi timori devono essere bilanciati con
la necessità di trattare le persone umanamente". (ANSA).