Addio al veleno per Josè Manuel
Barroso dopo un decennio passato ai vertici di Bruxelles. Il
portoghese sceglie di finire tra le polemiche - con un violento
attacco all'Italia - i suoi due mandati alla guida della
Commissione europea. Spesso accusato di eccessiva timidezza nei
confronti dei 'grandi' d'Europa, Gran Bretagna e Germania in
testa, a pochi giorni dalla fine del suo incarico si lascia
andare a uno sfogo inusitato per la sua indole considerata dagli
osservatori, e in molti casi anche dagli addetti ai lavori, fin
troppo accondiscendente. A margine del vertice europeo che ha
sancito di fatto il passaggio delle consegne con il suo
successore, Jean-Claude Juncker, Barroso ha sorpreso tutti
lasciandosi andare a un attacco a testa bassa contro Palazzo
Chigi, colpevole, ai suoi occhi, di aver violato la 'liturgia
comunitaria' rendendo pubblica la lettera con le osservazioni
sulla legge di Stabilità. Ma, fatto ancora più inusuale, ha
attaccato anche la stampa italiana, accusandola di pubblicare
notizie in larga parte "false, surreali, che non hanno nulla a
che vedere con la realtà, e se ce l'hanno è solo per caso,
spesso francamente invenzioni". A bruciargli devono essere stati
soprattutto i riferimenti all'esigenza di rifarsi un'immagine da
'duro' decisionista da spendere in una probabile nuova sfida
nella politica portoghese, dove punta alla carica di presidente
della Repubblica. Del resto, già martedì scorso Barroso aveva
masticato amaro, in occasione del suo ultimo discorso da
presidente della Commissione a Strasburgo, trovandosi a parlare
davanti a un'Aula parlamentare semivuota. Segnale non tanto di
un boicottaggio organizzato, quanto di semplice disinteresse per
l'ultimo atto di un leader e a una stagione politica che non ha
brillato per spirito d'iniziativa nonostante la necessità di
affrontare una crisi gravissima e inedita. Quella di martedì
scorso non è però stata la prima volta che il presidente uscente
dell'esecutivo europeo ha dovuto fare i conti con l'ostilità
della Eurocamera: nei mesi tremendi della crisi economica,
quando tutta l'Unione era chiamata ad affrontare la peggiore
depressione dopo quella del '29, aleggiò perfino l'ipotesi di
una mozione di sfiducia ai suoi danni, in segno di protesta per
la sua eccessiva arrendevolezza e passività davanti alle
resistenze dei governi nazionali, in primo luogo della Germania
di Angela Merkel. Al termine della sua carriera europea Barroso
non ha però resistito alla tentazione di liberarsi dei
cosiddetti sassolini che l'Italia, grazie ai vari governi che si
sono avvicendati a Palazzo Chigi, gli ha infilato nelle scarpe
negli ultimi dieci anni. Proprio a causa di sempre complesse e
defatiganti trattative sulla gestione dei conti pubblici
nazionali. Spesso accusato di essere troppo vicino agli
inquilini che si sono succeduti al numero 10 di Downing Street,
ma anche ai tedeschi o ai francesi, Barroso ha destato nel corso
degli anni molti malumori su più fronti. E in fondo, diversi
credono che tante delle ragioni degli euroscettici, anche se non
tutte, hanno trovato terreno fertile anche per colpa del modo in
cui questo popolare portoghese ha interpretato il ruolo di
Presidente della Commissione europea, considerata da troppi
europei il regno di una burocrazia costosa e inconcludente,
chiusa alle esigenze e ai bisogni dei cittadini afflitti dalla
crisi, attenta solo a tutelare e difendere i propri
privilegi.
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