Rischiamo la scomparsa nei bianchi di sentori floreali per una prevalenza di aromi tropicali, o di frutta matura. L'Amarone però è avvantaggiato, con una produzione ottima e vini belli corposi". Da noi "possiamo datare l'inizio dell'impronta dei cambiamenti climatici dal 1998" osserva Tomasi nel sottolineare che "da un periodo di fioritura abbreviato e pertanto di un anticipo dell'invaiatura conseguono mediamente vini più alcolici. E in un momento in cui a livello mondiale c'è forte attenzione sugli spumanti, diventa purtroppo più difficile mantenere l'acidità delle uve destinate alla produzione di spumanti, Champagne e Prosecco. In Italia, tuttavia - rimarca il direttore del Centro di ricerca di Conegliano - la tipicità dei nostri vini non è stata messa in discussione. Per mantenere la freschezza e l'acidità la viticoltura trentina, ad esempio, ha spinto lo Chardonnay e il rinomato Pinot Nero destinati a base spumante fino a quota 600 metri in Valle di Cembra. In generale, sono state trovate soluzioni agronomiche, cambiando l'orientamento dei filari, rivalutando la pergola, spingendo in altezza la viticoltura, prolungando lo sviluppo vegetativo. Ma ora occorre ragionare sulla regimentazione delle acque per far fronte alle sempre più frequenti precipitazioni, le cosiddette bombe d'acqua. L'irrigazione - continua Tomasi - diventa importante non più per conservare la quantità della raccolta, ma per preservare la qualità". In prospettiva, a giudizio del ricercatore del Crea, "per far fronte al cambiamento climatico servirà una "genetica di soccorso" e da parte dei Consorzi un ripensamento dei disciplinari di produzione con un rialzo delle rese del 10%-15%".
Riproduzione riservata © Copyright ANSA