In un anno sono stati persi più di sessanta milioni di euro di fatturato verso gli Usa a causa di una guerra commerciale che i produttori caseari italiani non hanno minimamente contribuito ad innescare. Sono stati costretti ad accollarsi un dazio aggiuntivo del 25% (oltre a quello "normale" del 15%) su alcuni dei formaggi più esportati e di maggior valore, perdendo competitività e spazi sugli scaffali della distribuzione americana. A riferirlo è Assolatte, precisando che l'Italia è il primo fornitore straniero di formaggi per gli States.
Gli Usa sono la prima destinazione extra Ue per le imprese italiane (nel 2019 valevano circa 38.000 tonnellate, nel 2020 sono scese a 31.000 tonnellate). Con la sospensione di 4 mesi, commenta Assolatte, "si è gettata la prima pietra per quella che si spera sia una "pace daziaria".
La riapertura del dialogo, spiega ancora l'associazione, è un primo passo certamente importante, ma non definitivo. Bisogna continuare a lavorare per il definitivo azzeramento dei super-dazi. Ai costi aggiuntivi oltreoceano e alla chiusura del canale horeca per il Covid, si è associato il deprezzamento del dollaro e l'aumento dei costi di nolo. Un mix esplosivo che ha prodotto un effetto drammatico sulle vendite negli Usa, con cali a 2 cifre per i grandi formaggi più esportati: Grana Padano e Parmigiano Reggiano -22% (in valore), Provolone -16%, Asiago -28%, Gorgonzola -13%). Come conferma Phil Marfuggi, già presidente della Cheese importer Association, "le tariffe aggiuntive del 25% hanno costretto i consumatori americani a riversarsi sulle produzioni nazionali, compromettendo le scelte di consumo future. E la la ritorsione ha messo in pericolo 20mila posti di lavoro e circa 4 miliardi di dollari di fatturato delle imprese coinvolte nell'importazione e nella commercializzazione dei formaggi italiani. Sarà difficile per le imprese esportatrici recuperare gli spazi e il tempo perduto".