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People

Jeff Buckley, ecco le parole di un angelo caduto

Autore di Grace e della cover di Hallelujah, bello e disperato. Del padre Tim disse, un pensiero claustrofobico che mi accompagna da tutta la vita

Un frame del video Halleluja cantata da Jeff Buckley (da YouTUbe) © Ansa
  • di Luciano Fioramonti
  • ROMA
  • 19 novembre 2018
  • 12:29

Per chi negli anni Novanta aveva venti anni c'era un pugno di "eroi belli e disperati, che rifuggivano la fama e creavano musica mostruosamente bella e sincera": Kurt Cobain, Eddie Vedder, Elliot Smith, Cat Power. "E poi c' era lui, il più etereo, angelico e profondo di tutti, Jeff Buckley". Cosi Federico Traversa spiega la genesi del libro dedicato al giovane cantautore e chitarrista americano, morto a Memphis a 30 anni la sera del 29 maggio del 1997, annegato nel Wolf River, un affluente nel Mississipi, dove era entrato vestito e con gli stivali per fare un bagno. Qualche tempo fa la frase "Ancora mi manca Jeff Buckley" che un Charlie Brown affranto dice a Lucy ha spinto Traversa a mettersi all'opera per tracciare un ritratto nuovo dell'artista.

"Mi accorsi che l'unico modo per raccontarlo era lasciare che a parlare fosse lui stesso", spiega nell'introduzione al volume "Jeff Buckley, l'impressione di essere eterno" (Chinasky Edizioni), curato con Marco Porsia e Francesca D' Ancona. E' una raccolta di "interviste perdute", edite o mai pubblicate, nelle quali scorrono vita, amori tormenti di un personaggio che ha lasciato poche tracce sonore ma ha scavato un solco profondo nella grande platea dei suoi fan.

Come Jimi Hendrix, Jim Morrison, Kurt Cobain e molti altri giovani eroi del rock, Buckley è entrato nel mito proprio dopo la morte che ha chiuso prima del tempo una storia che sembrava destinata ad un altro finale. Arrivato al successo con il primo album in studio "Grace", del 1994, definito dalla rivista Rollin Stone "a metà strada tra metallo e angeli" e inserito tra i 500 migliori album di tutti i tempi, Buckley ha toccato il cuore del grande pubblico con la versione intensa e struggente di "Hallelujah", di Leonard Cohen. Fra i capitoli del libro, l'intervista mai pubblicata a firma di Luisa Cotardo, e la prima intervista mai realizzata, da Martin Aston, inedita per l'Italia, e quella concessa in esclusiva per questo libro da Steve Berkowitz, produttore e manager della Columbia Records che scoprì e mise sotto contratto Jeff Buckley. E poi alcuni scatti inediti realizzati dal fotografo Hans van den Boogard. Il musicista californiano si svela senza filtri né censure fra paure, insicurezze, la carriera in ascesa, il difficile rapporto discografico con la Columbia e i dubbi mentre in sala d'incisione registrava l'album di esordio. E poi il successo, la stanchezza per i lunghi tour, il fantasma del padre Tim. Proprio il genitore, cantante folk leggendario, ebbe un peso enorme sulla vita del giovane Jeff.

Tim Buckley lasciò la moglie nel 1966 pochi mesi prima che il figlio nascesse, per andarsene a New York. Jeff lo incontrò in seguito e saltuariamente - Tim morì per overdose nel 1975 - e crebbe con il patrigno che gli regalò un disco dei Zeppelin e influenzò i suoi gusti musicali facendogli conoscere i Led Zeppelin, Hendrix, The Who, Queen, Pink Floyd. Anche quel rapporto non durò a lungo e il giovane Jeff restò con la madre, musicista classica, dedicandosi al blues, Robert Johnson, Nina Simone, Billie Holliday. Se ne andò di casa a 17 anni e cominciò a farsi notare in un locale dell'East Village ma la svolta arrivò nel 1992 quando firmò un contratto con la Columbia. Nell' agosto 1994 esce il primo e unico Lp "Grace", in grado - sottolineano gli autori - "di cambiare l'approccio alla musica a 7 persone su 10".

Per l'attenzione, la pressione dei concerti live, il condizionamento esercitato dai fan del padre, Jeff cominciò a bere pesantemente, a fumare, a drogarsi. Seguì un tour con date tutto il mondo, ma fu in Francia e in Australia che il pubblico cominciò a seguirlo con maggiore interesse. Nel 1995 la rivista People lo inserisce tra i 50 artisti più belli, ma Buckley la prende male a vedersi considerato più per l' aspetto che per la sostanza. Il suo secondo album "Sketches for my sweetheart the drunk" esce postumo nel 1998. Del maggio del 2000 è il secondo live postumo "Mistery Boy" con i concerti registrati nel 1995-96.

L'amore per la musica era nato con lui. "C'era il seno materno e c'era la musica", dice a Martin Eston nella prima intervista nel 1992. "Sono il classico ragazzo bianco del rock", racconta altrove. E di Hallelujah spiega: "Il motivo per cui ho fatto una cover è la canzone stessa, non il fatto che sia di Leonard". Sul rapporto tormentato con il padre è drastico: "Se qualcuno accenna a lui mi allontano. Non lo conosco davvero. E non frequento quelli che lo conoscono. Siamo diversi. Per quanto mi riguarda è un pensiero claustrofobico che mi accompagna da tutta la vita. Ho trascorso con lui un totale di nove giorni. Non mi ha mai scritto né telefonato".

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