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Riina, il boss che fece guerra allo Stato al cimitero di Corleone

La bara del capomafia stragista che ha condizionato la storia d'Italia degli ultimi 40 anni, fatta passare dall'ingresso laterale.

Redazione ANSA ROMA

(ANSA) - La bara in noce, trascinata da un carrello, entra in tutta fretta al cimitero. Totò Riina, capomafia stragista che ha condizionato la storia d'Italia degli ultimi 40 anni, viene fatto passare dall'ingresso laterale. Un modo per evitare i giornalisti, che diventa però il simbolo della sconfitta della mafia corleonese. Con il capo dei capi costretto, da morto, a tornare nel suo paese dalla porta di servizio. Per lui, che ha scalato i vertici di Cosa nostra lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue, non c'è stato neppure un funerale religioso, vietato dalla Chiesa che ormai da 24 anni ha scomunicato gli uomini d'onore che non mostrano segni di redenzione, dopo l'anatema di Giovanni Paolo II.
    E' finito così il boss che fece guerra allo Stato, finito in carcere, la prima volta, a poco più di 18 anni. Un "battesimo" criminale precoce e un'accusa grave: l'omicidio di un coetaneo, durante una rissa, per cui viene condannato a 12 anni. Era nato a Corleone il 16 novembre del 1930 da un famiglia di contadini e fino ad allora aveva alle spalle solo qualche furto.
    Poca roba, fino all'incontro con Luciano Leggio, all'epoca mafioso rampante che sta tentando di farsi strada. E' lui, suo compaesano che per un errore di trascrizione di un brigadiere passerà alla storia come Luciano Liggio, a farlo entrare in Cosa nostra. Un metro e 58, che gli vale il soprannome di Toto' U Curtu, esce dall'Ucciardone nel 1956, a pena scontata solo in parte, e viene arruolato nel gruppo di fuoco di Leggio che dietro di sé lascia una lunga scia di sangue.
    La lotta per il potere di "Lucianeddu" e dei suoi comincia nel 1958 con l'eliminazione di Michele Navarra, medico e boss di Corleone. Leggio ne azzera il clan e ne prende il posto. Totò diventa il suo vice. Nella banda c'è anche un altro compaesano, Bernardo Provenzano. Nel dicembre del 1963 Riina viene fermato da una pattuglia di carabinieri in provincia di Agrigento: ha una carta di identità rubata e una pistola. Torna all'Ucciardone per uscirne, dopo un'assoluzione per insufficienza di prove nel 1969. Mandato fuori dalla Sicilia al soggiorno obbligato, non lascerà mai l'Isola scegliendo una latitanza durata oltre 20 anni. Da ricercato inizia la sistematica eliminazione dei nemici: nel 1969, con Provenzano e altri uomini d'onore, uccide a colpi di mitra il boss Michele Cavataio e altri quattro picciotti in quella che per le cronache sarà la strage di viale Lazio. Due anni dopo è lui a sparare contro il procuratore di Palermo Pietro Scaglione. L'ascesa in Cosa nostra, ottenuta col sangue e la violenza - sarebbero oltre 100 gli omicidi in cui è coinvolto e 26 gli ergastoli a cui e' stato condannato - è inarrestabile. E va di pari passo con i primi delitti politici: l'ex segretario provinciale della Dc Michele Reina e il presidente della Regione Piersanti Mattarella. Dopo la cattura di Leggio, Riina prende il suo posto nel triumvirato mafioso assieme a Stefano Bontate e Tano Badalamenti. Farà poi allontanare quest'ultimo, accusandolo falsamente dell'omicidio di un capomafia nisseno.
    Ma è negli anni '80 che il ruolo suo e dei suoi, i villani di Corleone che hanno sfidato la mafia della città, diventa indiscusso. Soldi a fiumi con la droga, gli appalti e la speculazione edilizia. E una conquista del potere a colpi di omicidi eclatanti e lupare bianche. E' la seconda guerra di mafia. Il 23 aprile 1981 cade Stefano Bontande, "il principe di Villagrazia", il boss che vestiva in doppiopetto, frequentava i salotti buoni della città e controllava i traffici della Cosa nostra palermitana. Massacrato nel suo regno e nel giorno del suo compleanno. Diciotto giorni dopo, tocca al suo alleato, Totuccio Inzerillo, poi al figlio e al fratello: i parenti superstiti fuggono negli Stati Uniti e hanno salva la vita a patto di non tornare più in Sicilia. In poche settimane restano a terra decine di cadaveri. Riina la belva, come lo chiama il suo referente politico Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo del sacco edilizio, e' feroce e spietato. Condannato in contumacia all'ergastolo durante il "maxiprocesso", viene inchiodato dalle rivelazioni dei primo pentito di rango, Tommaso Buscetta. "U curto" si vendica facendogli uccidere undici parenti. Quando cominciano a fioccare gli ergastoli per gli uomini d'onore, il padrino dichiara guerra allo Stato. Una sorta di redde rationem con la condanna dei nemici storici come i giudici Falcone e Borsellino, a cui si doveva il maxiprocesso, e di chi aveva tradito. E' la stagione delle stragi che il capo dei capi vuole nonostante non tutti in Cosa nostra siano d'accordo. Il 12 marzo muore Salvo Lima, proconsole andreottiano in Sicilia. Il 23 maggio e il 19 luglio 1992 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Al boss restano però pochi mesi di libertà: il 15 gennaio 1993 i carabinieri del Ros lo arrestano dopo 24 anni di latitanza. La moglie, Ninetta Bagarella che ha trascorso con lui tutta la vita, torna a Corleone con i quattro figli, Lucia, Concetta, Giovanni e Giuseppe Salvatore, tutti nati in una delle migliori cliniche private di Palermo.
    Gli ultimi periodi della latitanza la famiglia li trascorre in una villa degli imprenditori mafiosi Sansone, a due passi dalla circonvallazione. I carabinieri lo ammanettano poco lontano da casa: un arresto il suo su cui restano molti punti oscuri. La versione ufficiale lo vuole "consegnato" da un suo ex fedelissimo, Baldassare Di Maggio, il pentito che poi avrebbe raccontato del bacio tra Riina e Andreotti.
    Con la morte del padrino restano senza risposte molte domande: sui rapporti mafia e politica, sulla stagione delle stragi, sui cosiddetti delitti eccellenti, sulle trame che avrebbero visto Cosa nostra a braccetto con poteri occulti in una comune strategia della tensione. Riina non ha mai mostrato alcun segno di redenzione. Fino alla fine quando, al processo trattativa, citato dalla Procura è rimasto in silenzio.

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