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Diminuiscono sperimentazioni con animali in Italia

Nel 2014 utilizzati quasi 700mila cavie, 30 mila in meno su 2013

Redazione ANSA ROMA

Diminuiscono, in Italia, le sperimentazioni cliniche in cui vengono utilizzati animali. Nel 2014 sono state infatti ben 30mila in meno rispetto all'anno precedente. E' quanto emerge dai dati statistici sull'utilizzo di animali a fini scientifici pubblicati in Gazzetta Ufficiale del 24 agosto 2016, e riportati sul portale web del Ministero della Salute. Raccolti per la prima volta secondo le modalità previste dalla Direttiva 2010/63/UE sulla protezione degli animali a fini scientifici, recepita in Italia con il decreto legislativo n. 26/2014, i nuovi dati fanno registrare per la prima volta un numero totale al di sotto delle 700mila unità. In calo già da diversi anni, nel 2013 erano stati 723.739 gli animali utilizzati in trial clinici per lo sviluppo di nuovi farmaci e terapie. "Con 691.666 animali utilizzati nel 2014 - si legge sul sito del Ministero - l'Italia scende di circa 30mila unità rispetto all'anno precedente confermando la funzionalità delle nuove regole contenute nella direttiva". Nello specifico, riporta il grafico allegato, sono stati utilizzati circa 485mila topi, 130mila ratti, 28mila polli, 18mila pesci, 17mila porcellini d'india, 7mila conigli e circa 450 macachi.

Il numero totale di animali è in leggero calo, ma "il fatto che non deve suscitare applausi né stupire - spiega la Lega antivivisezione - in quanto, per legge, il ricorso agli animali dovrebbe essere l’ultima via di sperimentazione, attuabile solo se non sono disponibili metodi alternativi. Il numero, purtroppo, è ancora troppo alto: quasi 700.000 gli animali che ogni anno vengono stabulati, utilizzati negli esperimenti, sottoposti a procedure dolorose che producono dati fuorvianti se trasferiti all’uomo".

Rispetto alle specie utilizzate, continua la Lav, "aumenta il ricorso a porcellini d’india, furetti, pecore e, tragicamente, di primati non umani. Il numero di macachi usati nei test è passato da 302 nel 2012 a quasi 450 nel 2014: un aumento inaspettato, soprattutto alla luce di una legge che limita fortemente il ricorso a specie filogeneticamente così vicine alla nostra. Animali che subiscono anche la sofferenza della cattura in natura, considerando che 246 macachi sono stati importati dall’Africa e 196 dall’Asia. Moltissimi topi, la specie più rappresentata nei laboratori, sono allevati per il solo mantenimento di colonie di animali geneticamente modificati. Un sistema in cui si inseriscono, nel Dna dell’animale, tratti genici o geni che portano l’informazione legata alla malattia umana, dove metà degli embrioni muore durante il periodo gestazionale oppure viene soppressa perché nasce priva della modifica genetica. Ben 289.558 le procedure che possono coinvolgere più animali, riferite alla ricerca di base, applicazione che non prevede nessun obbligo di legge e che dovrebbe avere un drastico calo delle autorizzazioni. Solo 14 su un totale di 698.059, invece, le procedure autorizzate per ricerche per la protezione dell’ambiente o nell’interesse della specie stessa. Questi numeri, già di per sé impressionanti, sono in realtà fortemente sottostimati, perché non tengono conto di molte categorie come gli animali usati già deceduti, gli invertebrati o le forme di vita non completamente sviluppate. Allarmante il dato relativo al numero di procedure classificate come gravi, oltre 21.000, dove per “gravi” si intendono sperimentazioni che comportano dolore e angoscia prolungati che possono comportare il non ricorso all’anestesia, come lesioni spinali, stimolazioni elettriche, nuoto forzato e perfusione di organi. Infine, grande parte dei cani utilizzati, in totale sono 500, provengono da allevamenti al di fuori dell’UE: animali spediti come oggetti dagli allevamenti, verso i laboratori di tutto il mondo".

“L’impegno verso la riduzione e la sostituzione degli animali nella ricerca rimane purtroppo solo sulla carta, come dimostrano queste statistiche, principio che non viene ascoltato per la mancanza di formazione, gap culturale e interessi economici, e che vincola il nostro Paese a un modello fallimentare di ricerca, anacronistico”, commenta Michela Kuan, biologa, responsabile Lav Area Ricerca senza animali.

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